dionysiana

filosofia, religioni e laicità

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L’ateismo degli altri

spinoza

Da Filosofia e teologia 29 (2014), 2. Il Dio sospeso, pp. 295-303
(con modifiche).


ABSTRACT

An atheist is such only for the God of someone else and everyone could be an atheist for others. No one is safe and the traditional notion of ‘fides implicita’ shows how within the religions themselves there is room for a kind of accepted and legitimate ‘atheism’. To build a dialogical space we have to suspend temporarily the theism-atheism dichotomy. A methodological and preliminary atheism, not closed to hope, is perhaps the only way by which we can establish a connection between faith and discursive reason.

Si è atei, sempre, per il Dio di qualcun altro e ciascuno può essere l’ateo di altri. Nessuno è al riparo e la nozione tradizionale di ‘fides implicita’ mostra come all’interno delle religioni stesse vi sia spazio per una sorta di ‘ateismo’ accettato e legittimo. Per costruire uno spazio dialogico occorre sospendere momentaneamente la dicotomia teismo-ateismo. Un ateismo metodologico e propedeutico, non chiuso alla speranza, è forse la sola via per la quale sia possibile stabilire un contatto tra fede e ragione discorsiva.

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TESTO

I ciechi che parlano dell’ateismo! Esiste forse già un teista? Come se ci fosse uno spirito umano padrone dell’idea di divinità! (F. Schlegel, Idee, 118).

[295] Si è atei, sempre, per il Dio di qualcun altro. Il termine esprime negazione o privazione, ma a qualificarlo e a dargli senso è ciò che viene negato, rifiutato, o dichiarato mancante. Solo il teismo dà significato all’ateismo: non Dio (la res che sarebbe negata) ma un’idea di Dio. L’ateismo non si rivolge a un oggetto, una cosa, un’entità. Nemmeno, in fondo, all’entità o cosa chiamata «Dio». Ha come riferimento le rappresentazioni di altri uomini, ritenute adeguate (o comunque sufficienti) ad esprimere Dio, il cui rifiuto possiamo quindi definire «ateo». Concetti, dottrine adeguate o sufficienti a definire l’oggetto designato, sia dal punto di vista di chi vi aderisce, sia specularmente da quello di chi vi si contrappone negandone l’esistenza. Idee, rappresentazioni considerate capaci di esprimere la «cosa» di cui si parla. Resta da chiedere se un linguaggio concetto appropriato riguardo al divino vi sia.

[296] È in riferimento alla nostra personale esperienza che proclamiamo «ateo» colui che non la riconosce. Costui non è semplicemente un non credente, è qualcuno mancante di qualcosa di cui io ho esperienza o che nega vi sia questo qualcosa. Chi ha un altro Dio, ovviamente, non è solo per questo un ateo, ma è ateismo rifiutare il carattere sacro e divino di quel che noi abbiamo accettato come tale. Ed è sempre stato così.
Gli epicurei, pur con i loro dèi negli intermundia, sono stati coerentemente definiti atei da greci e cristiani, antichi e moderni [1]. Analogamente il Deus di Spinoza non ha mai impedito di sospettare della sua filosofia. Non basta che qualcuno parli dell’esistenza di un Dio perché si possa escludere che sia ateo. L’ateismo è quoad nos.
Di ateismo furono accusati i primi cristiani, i quali reagirono con sdegno: assurdo trattare in tal modo proprio loro, i credenti nel vero Dio [2]. Però Giustino ammette che, in un certo senso, potevano dirsi «atei» rispetto agli dèi pagani [3]. I cristiani comunque non mancarono di ritorcere l’accusa contro i loro avversari. Già il Nuovo testamento definisce i gentili, prima della conversione, sine Deo in mundo (ἄθεοι ἐν τῷ κόσμῳ) [4]. Nel Martirio di Policarpo vediamo come l’epiteto venga fatto rimbalzare dagli uni agli altri: a Policarpo viene ingiunto di dire, in riferimento ai cristiani, «Basta con gli atei». Lui rivolgendosi verso la folla dei «pagani senza legge» (ἀνόμων ἐθνῶν) e indicandoli con la mano scandisce: «Basta con gli atei» (Αἶρε τοὺς ἀθέους) [5]. Sarebbe un errore accantonare questi episodi come mere strumentalizzazioni polemiche o frutto di ignoranza, anzi l’accusa contro i cristiani diviene più comune nel II secolo forse proprio per una migliore conoscenza del cristianesimo [6]. Tutto sommato Giustino ha ragione: negando qualsiasi valore alla religione tradizionale i cristiani sono, rispetto ad essa, «atei».

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[297] Cornelio Fabro, sull’Enciclopedia Cattolica, dava dell’ateismo una descrizione assai comprensiva. Vi inseriva le civiltà e le religioni orientali, jainismo e buddhismo, allo stesso tempo negava vi fosse «distinzione tra ateismo e politeismo idolatrico» [7]. Sostanzialmente nella nozione «rientrano, dal punto di vista teologico e metafisico, anche tutte quelle filosofie e religioni, che si fanno di Dio un concetto contrastante con l’esigenza della sua Natura…». Campo assai vasto, come si vede. D’altronde «queste concezioni, con l’illusione di una accettazione della divinità, allontanano in un certo senso più dell’ateismo dalla conoscenza del vero Dio» [8]. Alla fine, anche il modernismo è stato autorevolmente etichettato come propedeutico all’ateismo [9]. Certo mette un po’ a disagio ampliare a tal punto l’uso del termine, ad ogni modo qualunque definizione si scelga dipenderà innanzitutto da quella che riteniamo sia la concezione adeguata di Dio e del divino. Più è determinata e finita, più saranno gli atei.
Sine ira et studio legioni di intellettuali, prudenti e consapevoli, hanno mostrato una sorprendente larghezza nell’elargire la qualifica di «ateo». Non va forse smascherato l’ateismo di Lutero, Melantone e Calvino? È quel che scrivono alcuni noti autori cattolici. [10] Di contro, tra i riformati vi è chi ritiene la Chiesa Cattolica causa di ateismo [11]. Per i gesuiti sono sospetti Giansenio, Cartesio e Pascal, mentre il frate cappuccino Valeriano Magni non risparmia giusto i seguaci di Ignazio di Loyola [12]. Un esponente della Chiesa Unitariana, la quale a sua volta ha costituito un facile bersaglio di accuse da parte delle altre confessioni cristiane, può invece [298] ritenere che la forma più pericolosa di ateismo non sia quella aperta e palese di chi si dichiara tale, quanto «l’infedeltà pratica che accetta ogni articolo del credo popolare» mentre nella vita quotidiana si rivela «senza onestà, amore o Dio nel mondo» [13]. Ma quale religione potrebbe allora garantire ai suoi aderenti di non essere «atei»? Non è facile per nessuno, a questo punto, riuscire ad ottenere una sicura immunità dall’accusa di ateismo [14]. Paradigmatico è il caso di Newman: nella sua teoria dello sviluppo del dogma si è potuto scorgere, senza che la cosa procurasse particolari difficoltà (e con scarso senso del ridicolo), una manifestazione dell’ateismo del suo tempo [15].
È forte la tentazione di considerare questi episodi unicamente quali curiosità storiche o esempi di uso errato e denigratorio del termine. Ci consentirebbe di accantonare i numerosissimi casi del genere, abbandonandoli a una teratologia storiografica per noi irrilevante. Tuttavia vi è in essi molto più, emerge una struttura di fondo che va oltre inimicizie umane e miopie dottrinali e finisce col toccare un aspetto centrale della questione: ciascuno può essere l’ateo di qualcun altro.


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In una recente sintesi si legge che solo il negare il Dio di un «sofisticato monoteismo» comporta l’essere ateo. Assumiamo, senza tanti rovelli, che sia così. Sembrerebbe infatti che le divinità tribali e quelle delle religioni politeiste siano «di scarso o nessun interesse filosofico» ed è una fortuna, perché in tal modo evitiamo di considerare atea ogni manifestazione di incredulità nei loro confronti [16]. Meglio però restringere ulteriormente il [299] campo al Dio ebraico-cristiano, personale e provvidente. Con il vantaggio di poter continuare a classificare come forme di ateismo alcuni monoteismi per conto loro abbastanza sofisticati (si pensi a Spinoza o ai deisti). Negare che vi sia un ordine cosmico è ateo, ma identificare semplicemente Dio con quest’ordine potrebbe esserlo altrettanto.

La differenza tra ateismo e teismo risiede, sembra, nell’oggetto di una credenza. Ma cosa, esattamente, si crede (o non si crede)? L’aspetto cognitivo, il contenuto concettuale è davvero così essenziale nello stabilire la fede di una persona?

Il problema forse è più giuridico e casuistico. Prendiamo dunque come guida un’opera autorevole e dall’ampia eco in questo genere di letteratura: il commento alle decretali di Innocenzo IV, l’Apparatus in quinque libros decretalium [17].
Fidei mensura quaedam est… C’è una certa misura della fede, che è sufficiente all’uomo comune. Se ci domandiamo quanto davvero importi credere nelle dottrine fondamentali di una religione, possiamo talora ricevere risposte sorprendenti. Dopo anatemi, roghi, conflitti secolari non è da mettere in dubbio che il contenuto delle nostre credenze sia vitale per la salvezza. Non è affatto indifferente cosa si crede. Fino a una certa misura, almeno. Perché neppure dobbiamo pretendere troppo. Pochi fedeli saprebbero districarsi senza impacci nei lacci di teologie millenarie, ricchissime, estremamente sottili e complesse. La possibilità dell’errore è sempre in agguato, la salvezza diventerebbe una chimera. Una congiunzione, un _que, una sfumatura semantica, e saremmo perduti.
Tutto sommato, è stato risposto, può bastare una fede implicita. Sufficit credere in Dio e credere che egli retribuisca ogni bene. Ma allora i dogmi, le condanne dottrinali, Ario, Nestorio e le eresie sono forse irrilevanti? Assolutamente no, vi è un limite minimo su cui non si deve transigere e che invece di per sé sufficit, basta a tutti coloro che non sono chierici: credere verum esse quicquid credit ecclesia, credere vero qualunque cosa crede la Chiesa [18].
[300] A parlare in modo così trasparente è un’autorità cattolica, ma emerge qui una struttura, ora esplicita ora tendenziale, sottostante a molte tradizioni religiose differenti. Sì, sarebbe opportuno che i laici dotati di talento e ingegno si dedicassero all’approfondimento degli articoli di fede, ma se anche non lo fanno, non pare che pecchino (quamvis non videatur, quod peccant etiamsi eis non intendant). Le doti intellettuali, per se stesse, non comportano un obbligo di conoscenza. Opinioni gravemente erronee, quanto al contenuto dottrinario, possono esser credute senza danno alcuno per la nostra anima, purché si ignori che sono in contrasto con la dottrina della Chiesa e non le si difenda contro di essa [19]. L’unico ostacolo alla salvezza è il mancare del solo requisito fondamentale: credere in qualunque cosa creda la Chiesa.

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Sarebbe fuorviante forzare queste parole per renderle rappresentative in generale della teologia e della dottrina cattolica. Già in quel testo alcune espressioni di cautela (etiam forte, ut dicunt quidam, ecc.) dovrebbero metterci sull’avviso, si aggiunga che in molti, da Bonaventura e Tommaso in poi, si sono preoccupati di delimitare con vincoli più stretti l’ambito della fides implicita [20]. Tuttavia, pur senza sottovalutare l’ampia influenza di un testo normativo come l’Apparatus innocenziano, è irrilevante per il nostro [301] discorso se esso esponga o meno la posizione della Chiesa. È a noi sufficiente che rappresenti una possibilità all’interno del cattolicesimo. Per Adolf von Harnack la dottrina della fides implicita non fa che dare espressione logica a una vecchia concezione cattolica [21]. Tommaso, da parte sua, non contesta che il bonum fidei consista sostanzialmente nell’obbedienza [22]. Così, dice, bisogna evitare di indagare troppo sulle convinzioni dei semplici fedeli, a meno che non li si sospetti di esser stati fuorviati dagli eretici. Anche in quest’ultimo caso, d’altronde, se le credenze erronee non sono difese con pertinacia, i fedeli non vanno ritenuti colpevoli [23]. In fondo, quel che si crede mediante un giudizio autonomamente formato è secondario rispetto all’obbedienza. Per quanto sul piano teorico Tommaso sia meno condiscendente verso la fides implicita, avvertendone le ambiguità, sul piano della prassi vi rimane poi vincolato. Ponendo al centro della vita religiosa l’adesione a un contenuto dottrinale ci si scontra inevitabilmente con il problema dell’impossibilità pratica di garantire la salvezza ai rudes, a coloro che non hanno un’adeguata preparazione teologica.
Ad ogni modo, indipendentemente da qualunque posizione sia stata successivamente presa sul tema della fides implicita, una cosa soltanto conta qui: come minimo, nella forma esposta da Innocenzo IV, non è dottrina incompatibile con una parte della tradizione cattolica. L’aspetto essenziale della religione per il credente ordinario sembrerebbe ridursi alla semplice obbedienza nei confronti dell’autorità. Sebbene ingenerosa o addirittura caricaturale come caratterizzazione dell’intero cattolicesimo, si tratta di una tentazione non priva di riscontri nella storia (e nell’attualità).

[302] Calvino attaccherà su questo punto con forza, senza tener conto della complessità del tema o delle sfumature all’interno della teologia scolastica. Per lui «la finzione di una fede implicita non solo seppellisce, ma distrugge totalmente la vera fede». A cosa si ridurrebbe il credere, forse a non intendere nulla e a sottomettersi obbedientemente alla Chiesa? La replica è netta: non in ignoratione, ma in cognitione risiede la nostra fede. Altrimenti si potrebbe non credere realmente in nulla di preciso, purché si apponga la condizione «credo se così fa la Chiesa». Ma è assurdo immaginare di poter avere la verità nell’errore, la luce nelle tenebre, la scienza nell’ignoranza [24].
Pensare che basti respingere con foga una dottrina perché si risolva da sé il problema per il quale la dottrina nasce è certo illusorio [*], tuttavia la reazione di Calvino è comprensibile: una credenza in realtà priva di oggetto determinato, fondata unicamente sulla sottomissione a un’autorità visibile, quale forma di teismo sarebbe esattamente? Non credere in niente se non nell’autorità: non siamo qui pericolosamente vicini a una forma di indifferentismo religioso o addirittura di ateismo?
Se pare ci si stia spingendo troppo oltre, si pensi al fenomeno, non nuovo, dei cosiddetti «atei devoti»: in un certo senso essi rappresentano il punto di contatto fra due ateismi, uno esterno e uno interno al cristianesimo [25]. È abbastanza indicativo che la loro comparsa provochi tanto l’aperto fastidio di una parte dei fedeli, quanto il sincero entusiasmo di altri. Nella sua unilateralità, alla fine, l’estremizzazione operata da Calvino mette in risalto una tendenza realmente esistente. La condiscendenza verso gli «atei devoti», cartina al tornasole di una sorta di ateismo implicito, sorprende poco se il carattere essenziale della fede viene ricondotto fra gli stessi fedeli al credere verum esse quicquid credit ecclesia [26]. Ed è un rischio al quale non [303] sfugge né il cattolicesimo né il calvinismo, come qualsiasi religione fondata su una dottrina salvifica che richieda un’adesione intellettuale.

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Non basta un Dio, un mondo, un senso per avere speranza. Non dobbiamo fare della dottrina un idolo, non possiamo imprigionare il divino nel recinto delle nostre rappresentazioni [27]. La rappresentazione, il logos, la dottrina hanno un valore positivo, sarebbe sciocco rifiutarli e vano credere di poterne fare a meno. Ma costituiscono solo un punto d’appoggio, una base di partenza per il salto verso l’ἀνυπόθετον [28].
La costruzione di uno spazio dialogico richiede di operare una sospensione delle divisioni dottrinali, degli aut aut preliminari e fondativi, tornando al «Dio ignoto» che tutti andiamo cercando a tentoni benché egli non sia lontano da noi [29]. Un ateismo metodologico e propedeutico, non chiuso alla speranza, è forse la sola via per la quale sia possibile stabilire un contatto tra fede e ragione discorsiva. La lezione della teologia negativa, di Bonhoeffer e ora di Kearney [30] è antica ma va continuamente riscoperta, perché ciò che è al di là dell’essere e della parola è anche «di ogni silenzio più ineffabile» [31] e non consente all’uomo di acquietarsi né in una formula dottrinale sclerotizzata né in silenzio sterile e vuoto.
L’ateismo, il nostro e l’altrui (quali che siano le credenze di ciascuno), offre un dono alle religioni. Ci ricorda di non rinchiuderle entro uno steccato dottrinale e, col contestare tanto l’adeguatezza delle definizioni quanto la loro capacità di catturare una res, costituisce un invito a continuare sempre a mettere alla prova le nostre idee, affrontando la sfida di un’alterità irriducibile e necessaria. Le idee sono importanti, sarebbe un errore ritenerle indifferenti, ma c’è una cosa ancora più fondamentale, dalla quale le idee stesse traggono vita, ed è la relazione fra le persone.


NOTE

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[1] La filosofia epicurea è generalmente classificata tra le forme di ateismo. Così fa anche U. Perone alla voce Ateismo, nell’Enciclopedia filosofica del Centro studi filosofici di Gallarate, Bompiani, Milano 2006.

[2] Qualche esempio in Cassio Dione LXVII, 14; Giustino, Apologia I, 6 e II, 3; Atenagora, Supplica 3-4 e 13. Cfr. A. von Harnack, Der Vorwurf des Atheismus in den drei ersten Jahrhunderten, in Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur, a c. di O. von Gebhardt e A. von Harnack, Hinrichs, Lepzig, 1905 (TU XXVIII, 4); P. F. Beatrice, “L’accusation d’athéisme contre les Chrétiens”, in Hellénisme et Christianisme, a cura di M. Narcy ed É. Rebillard, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq, 2004, pp. 133-151. Sull’ateismo antico in generale cfr. J. N. Bremmer, “Atheism in Antiquity”, in The Cambridge Companion to Atheism, a cura di M. Martin, Cambridge UP, Cambridge, 2007, pp. 11- 26.

[3] Giustino, Apologia I, 6 : «ammettiamo certamente di essere atei rispetto a queste sedicenti divinità» (ὁμολογοῦμεν τῶν τοιούτον νομιζομένων θεῶν ἄθεοι εἶναι).

[4] Ef. 2, 12.

[5] Martirio di Policarpo IX, 2.

[6] Beatrice, “L’accusation…”, cit., p. 136: «L’accusation d’athéisme dérive fort probablement d’une connaissance, devenue avec le temps plus proche et précise du phénomène chrétien et de ses réelles implications strictement anti-polythéistes, de la part des autorités et du peuple».

[7] C. Fabro, s.v. “Ateismo”, in Enciclopedia cattolica, Ente per l’Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1949, col. 268.

[8] Fabro, s.v. “Ateismo”, cit., col. 266 (corsivo mio). Del resto è già ateismo il «demolire i fondamenti delle prove dell’esistenza di Dio, della necessità della religione e del culto e di quanto necessariamente vi si connette (Provvidenza, immortalità dell’anima, sanzione morale…).» Nella sua Introduzione all’ateismo moderno del 1964 torna ancora sull’argomento. Per evitare di ricadere nell’ateismo, scrive, occorre che Dio sia riconosciuto come l’essere supremo, unico e sommo, puro spirito, trascendente e «persona supremamente libera» (in C. Fabro, Opere complete 21, Edivi, Segni, 2013, pp. 52-53). Agnosticismo, politeismo, naturalismo, vitalismo, panpsichismo, monismo, panteismo, razionalismo, deismo, idealismo e immanentismo non soddisfano tali requisiti e sono da considerarsi dunque forme di ateismo.

[9] Fabro, s.v. “Ateismo”, cit., col. 277, che a sua volta si rifà a Pio X, Enc. Pascendi: «Ma basti sin qui per conoscere per quante vie la dottrina del modernismo conduca all’ateismo e alla distruzione di ogni religione. L’errore dei protestanti dié il primo passo in questo sentiero; il secondo è del modernismo: a breve distanza dovrà seguire l’ateismo.»

[10] A. Possevino S. J., Bibliotheca selecta de ratione studiorum VIII, apud Altobellium Salicatium, Venetiis, 1603, p. 382 (Tractatio de atheismis Lutheri, Melanchthonis, Calvini…); C. de Sainctes, Déclaration d’aucuns athéismes de la doctrine de Calvin et Bèze, Fremy, Paris, 1568.

[11] Un esempio in J. La Placete, De insanabili romanae ecclesiae scepticismo, Gallet, Amstelodami, 1696, p. V. Si veda soprattutto Giovanni Calvino, Institutio religionis christianae IV, 7, 27 (Opera I, a c. di G. Baum, E. Cunitz, E. Reuss, Schwetschke, Brunsvigae, 1863, p. 625): Sed quid tres aut quatuor pontifices enumero? Quasi vero dubium sit qualem religionis speciem professi sint jampridem Pontifices, cum toto cardinalium collegio, et hodie profiteuntur. Primum enim arcanae illius theologiae, quae inter eos regnat, caput est, nullum esse Deum («Ma che enumero a fare tre o quattro pontefici? Come se ci fosse dubbio alcuno su quale specie di religione i pontefici, con tutto il collegio dei cardinali, hanno da lungo tempo professato e professano ancora oggi. Il primo articolo, infatti, di quell’arcana teologia che tra loro domina incontrastata, è che non vi è nessun Dio»).

[12] J. Hardouin S.J., Athei detecti, in Opera varia, Du Sauzet, Amstelodami, 1733. V. Magni, Christiana et catholica defensio adversus Societatem Jesu haeresi, vel atheismo infectam, [S.l.], 1661.

[13] C. W. Wendte, “Editor’s Preface”, in T. Parker, Theism, Atheism and the Popular Theology, American Unitarian Association, Boston, 1907, p. IX: «the most dangerous form of atheism is not that which frankly avows itself such, and yet lives a pure, self-restrained, and kindly life, but the practical infidelity which accepts all the articles of the popular creed while in its daily conduct it discloses that it is without honesty, love, or God in the world.»

[14] Non sfuggono all’accusa Aristotele, gli scotisti, Campanella (a cui non servirà l’aver scritto l’Atheismus triumphatus), né i Quaccheri: cfr. J. F. Buddeus, Theses theologicae de atheismo et superstitione, Vonk van Linden, Trajectum ad Rhenum, 1737; A. C. Roth, Atheistica Thomasiana, Lankisius, Lipsiae, 1698, p. 29.

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[15J. Buchanan, Modern atheism, under its forms of pantheism, materialism, secularism, development, and natural laws, Gould & Lincoln, Boston, 1857. Su Newman si vedano le pp. 116-126 (a esser preso di mira è l’Essay on the Development of Christian Doctrine, Toovey, London, 1845). Per Buchanan ammettere una progressione nello sviluppo della dottrina rischia, sia pur indirettamente, di compromettere il carattere rivelato e trascendente del cristianesimo. Analogamente ad altre forme di evoluzionismo, una tale concezione spingerebbe verso un naturalismo di fatto.

[16] J. J. C. Smart, “Atheism and Agnosticism”, in The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Spring 2013 Edition), a c. di E. N. Zalta: «’Atheism’ means the negation of theism, the denial of the existence of God. I shall here assume that the God in question is that of a sophisticated monotheism. The tribal gods of the early inhabitants of Palestine are of little or no philosophical interest. […] Similarly the Greek and Roman gods were more like mythical heroes and heroines than like the omnipotent, omniscient and good God postulated in mediaeval and modern philosophy.»

[17] Innocenzo IV, Commentaria… super libros quinque Decretalium, Feierabendt, Francofurti ad Moenum, 1570.

[18] Innocenzo IV, Commentaria, cit., I, tit. 1, c. 1: quaedam est fidei mensura ad quam quilibet tenetur et quae sufficit simplicibus et etiam forte omnibus laicis, scilicet, quia oportet quemlibet adultum accedentem ad fidem credere quia Deus est et quod est remunerator omnium bonorum. Item oportet [omnes] alios articulos fidei credere implicite, idest credere verum esse quicquid credit ecclesia catholica («vi è una certa misura della fede alla quale si è tenuti e che è sufficiente alla gente comune e forse anche a tutti i laici: ciascun adulto che si accosti alla fede deve credere che Dio è e che retribuisce ogni bene. Poi deve credere a tutti gli altri articoli di fede implicitamente, cioè deve credere vero qualunque cosa crede la Chiesa Cattolica»).

[19] Ibid.: Item videtur, quod etiam laici quibus Deus dat talentum subtilis ingenii, melius faciunt, si suum ingenium impendant in cognitione praedictorum, quamvis non videatur, quod peccant etiamsi eis non intendant. […] in tantum autem valet implicita fides ut dicunt quidam, quod si aliquis eam habet, scilicet quod credit quicquid ecclesia credit, sed falso opinatur ratione naturali motus, quod pater maior vel prior sit filio, vel quod tres personae sunt tres res a se invicem distinctae, quod non est haereticus, nec peccat, dummodo hunc errorem suum non defendat, et hoc ipsum credit, quia credit ecclesiam sic credere, et suam opinionem fidei ecclesiae supponit, quia licet male opinetur, tamen non est fide sua, imo fides sua fides est ecclesiae («Sembra poi che anche i laici ai quali Dio abbia donato un ingegno sottile farebbero bene a impegnarlo nella conoscenza delle cose divine, sebbene non pare che pecchino se anche non si rivolgano ad esse. […] a tal punto vale la fede implicita, come dicono certuni, che se uno la possiede, ovvero crede qualunque cosa crede la Chiesa e però, mosso dalla ragione naturale, falsamente ritiene che il Padre sia maggiore o primo rispetto al Figlio, o che le tre persone sono tre realtà distinte, non è eretico né pecca, almeno fino a quando non difende il suo errore e vi crede perché crede che così faccia la Chiesa e scambia la sua opinione con la fede della Chiesa. La ragione di ciò è che, sebbene abbia un’opinione sbagliata, tuttavia non è questa la sua fede, ma la sua fede è la fede della Chiesa»).

[20] Per Bonaventura da Bagnoregio (In Sent. III, d. 25, a. 1, q. 3) la sola fides implicita non è sufficiente: «credere omnes implicite est fidei diminutae». Condizione minima per la salvezza è credere qualcosa implicitamente e qualcosa esplicitamente («quosdam implicite, quosdam explicite»). Tommaso d’Aquino ritiene necessaria la fede nei prima credibilia, ovvero negli articuli fidei (ST II-II, q. 2, a. 5). Critico sarà anche J. H. Newman, il quale affaccia il timore che limitarsi a richiedere una fides implicita «in the educated classes will terminate in indifference, and in the poorer in superstition» (On consulting the faithful in matters of doctrine, ed. by J. Coulson, Sheed & Ward, Kansas City, 1961, p. 106). In tempi più recenti il concetto di fides implicita ha assunto un significato ben diverso nel contesto della teologia delle religioni, soprattutto grazie a K. Rahner, ma la cosa esula dal nostro tema.

[21] A. von Harnack, Lehrbuch der Dogmengeschichte III, Mohr, Freiburg i. Br., 1897, p. 453. L’osservazione non è priva di una punta polemica.

[22] Tommaso d’Aquino, ST II-II, q. 2, a. 5, arg. 3: bonum fidei in quadam obedientia consistit.

[23] Tommaso d’Aquino, ST II-II, q. 2, a. 6, ad 2: simplices non sunt examinandi de subtilitatibus fidei nisi quando habetur suspicio quod sint ab haereticis depravati, qui in his quae ad subtilitatem fidei pertinent solent fidem simplicium depravare. Si tamen inveniuntur non pertinaciter perversae doctrinae adhaerere, si in talibus ex simplicitate deficiant, non eis imputatur («i semplici fedeli non devono essere esaminati sulle sottigliezze della fede, se non quando ci sia il sospetto che siano stati pervertiti dagli eretici, i quali sono soliti pervertire la fede della gente semplice proprio in queste sottigliezze. Tuttavia ciò non sia imputato loro a colpa, se si riscontra che i semplici fedeli non aderiscono a una dottrina perversa con ostinazione e che sono caduti in errore per ingenuità)». Che l’eresia consista essenzialmente nel discostarsi consapevolmente dal magistero ecclesiastico rimarrà un classico leitmotiv della teologia cattolica, mentre il semplice errore materiale viene considerato del tutto irrilevante: de ratione haereseos est recessus a regula ecclesiastici magisterii, qui in casu nullus est, cum sit simplex error facti circa id quod regula dictat (L. Billot, Tractatus de ecclesia Christi I, Giachetti, Prato, 1909, p. 293). Sembra potersene concludere che a esser dannosa sia non tanto l’idea creduta in sé, ma la ribellione al dettato della Chiesa. Billot sarà successivamente un convinto sostenitore dell’Action française.

[24] Calvino, Institutio religionis christianae, cit., III, 2, 2-3, pp. 473-474): Figmentum autem de fide implicita, veram fidem non modo sepelit, sed penitus destruit. Hoccine credere est, nihil intelligere, modo sensum tuum obedienter ecclesiae submittas? Non in ignoratione, sed in cognitione sita est fides […]. Fides enim in Dei et Christi cognitione, non in ecclesiae reverentia iacet. […] Quae inconsiderata facilitas, quum certissimum sit in ruinam praecipitium, ab iis tamen excusatur, quia definite nihil credat, sed apposita conditione, si talis ecclesiae sit fides. Ita in errore veritatem, in caecitate lucem, in ignorantia rectam scientiam teneri fingunt («Queste finzioni riguardo a una fede implicita non solo seppelliscono, ma distruggono totalmente la fede autentica. Sarebbe questo il credere, non intendere nulla e solo sottomettersi obbedientemente alla Chiesa? Non nell’ignoranza, ma nella conoscenza è riposta la fede […] La fede consiste nella conoscenza di Dio e di Cristo, non nella reverenza per la Chiesa. […] Questa superficialità sconsiderata, quantunque sia certissimo precipizio verso la rovina, da costoro tuttavia è scusata, in quanto non crede nulla in modo determinato, ma appone la condizione “se tale è la fede della Chiesa”. Così immaginano sia tenuta la verità nell’errore, la luce nell’oscurità, la retta scienza nell’ignoranza»).

[*] In effetti lo stesso Calvino si ritroverà a dover successivamente giustificare una qualche forma di fides implicita. Si veda David Anders, John Calvin on Implicit Faith (2011)

[25] Scrivendo a proposito di Charles Maurras si è detto: «Non chrétien, catholique sociologique d’institution» (P. Chaunu, Charles Maurras et les catholiques français, in «Histoire, économie et société», XIV (1995), p. 143.

[26] Del resto, scriveva A. Tanquerey al volgere del XIX secolo, dopo che sia stata riconosciuta l’autorità storica e sociale, per così dire «umana», della Chiesa, facilmente i simplices o rudes pervengono all’ammissione della sua autorità divina e infallibile: Admissa auctoritate ut ita dicam humana Ecclesiae, facile ad ejus divinam et infallibilem auctoritatem devenient (Synopsis theologiae dogmaticae fundamentalis I, Desclée, Tornaci, 1899, p. 58).

[27] Di un cristianesimo senza fede, ridotto a morale e dottrina, ha parlato recentemente Papa Francesco: «Quando un cristiano diventa discepolo dell’ideologia, ha perso la fede e non è più discepolo di Gesù» (Discepoli di Cristo non dell’ideologia, «L’Osservatore Romano», 18/10/2013).

[28] Platone, Resp. VI, 511b: «punti di appoggio e di slancio (ἐπιβάσεις τε καὶ ὁρμάς) per giungere sino a ciò che è al di là di ogni presupposto, al principio del tutto».

[29] At. 17, 23-27. Il discorso di Paolo all’Areopago illustra bene come si costruisca (e si perda) un piano di confronto comune.

[30] R. Kearney, Ana-teismo. Tornare a Dio dopo Dio, tr. it. a c. di . M. Zurlo, Fazi, Roma, 2012.

[31] Proclo, Theologia platonica II, 11: πάσης σιγῆς ἀρρητότερον.

Un medioevo incredulo

 

Pierpont Morgan Library, ms. M.780, f. 39v
Incredulità di S. Tommaso,
XI sec. (da Corsair)

 


Mediaeval Sophia
(3/2008), la rivista on line dell’Officina di studi medievali, ospita un mio intervento su incredulità e scetticismo tra XII e XIII secolo: Guglielmo Russino, Un medioevo incredulo. A proposito di scetticismo e imposture. Si fa riferimento, fra l’altro, alla leggenda dei “tre impostori” (Mosè, Gesù e Maometto) che avrebbero ingannato i loro popoli per sottometterli al potere religioso. Federico II fu accusato di diffondere questa storia e lo stesso accadde per Simone di Tournai, uno dei principali maestri parigini alla fine del XII secolo. Qui di seguito trovate l’abstract e il testo con alcune correzioni. L’articolo originale è liberamente scaricabile dal sito di Mediaeval Sophia previa registrazione.

Ateismo, materialismo e indifferentismo non sono sconosciuti nel medioevo. Per quanto le accuse di incredulità (spesso scagliate per ragioni polemiche) da sole non bastino a dimostrare che gli accusati abbiano davvero sostenuto le posizioni loro attribuite, possiamo constatare che scetticismo e indifferentismo religioso non erano al di fuori dell’orizzonte mentale del comune uomo medievale. La leggenda dei “tre impostori” ne offre un esempio che sarà ripreso dal pensiero libertino in età moderna.

Atheism, materialism and indifferentism are not unknown in the Middle Ages. Though accusations of incredulity (often made for polemic reasons) are not enough by themselves to show that the accused really upheld the positions attributed to them, we can ascertain that scepticism and religious indifferentism were not outside the mental horizon of the common medieval man. The legend of the three impostors offers an example that was to be taken up by libertine thought in the modern age.

 


UN MEDIOEVO INCREDULO

 

Pagano
Messale romano, Missa contra paganos
Bologna, ca. 1370 (da Enluminures).

 

In ogni epoca le idee predominanti emergono e si definiscono sullo sfondo di un vasto retroterra di tendenze meno appariscenti, spesso confuse, contraddittorie e incerte. E sempre abbiamo a che fare con credenze in contrasto fra di loro. Volendo descrivere un periodo il cartografo delle mentalità non può soltanto limitarsi a collezionare i loci communes. Deve inquadrare il campo di variabilità, definire gli estremi, annotare i picchi e gli addensamenti e, soprattutto, individuare le aree di tensione.

Certo, la marginalità resta tale. Enfatizzare in misura eccessiva aspetti secondari può condurre fuori strada. D’altronde può accadere lo stesso se, troppo concentrati sul medioevo “età della fede”, perdiamo di vista il panorama globale. Così non è inutile rammentare che persino ateismo, materialismo e indifferentismo rientravano nelle possibilità concettuali dell’uomo medievale. Un bel libro di J. H. Arnold (Belief and Unbelief in Medieval Europe, London, Hodder Arnold, 2005) si preoccupa di mettere in luce, a fianco di ciò che si crede, pure quel che può essere classificato come Unbelief nei lunghi secoli dell’età di mezzo. Ne risulta una ricostruzione affascinante e vivida della religiosità medievale, nella quale le tendenze principali del periodo si delineano in un contesto fatto di opacità, resistenze e aperti conflitti.

Belief and Unbelief

Sarebbe davvero curioso se per un tratto della storia umana ogni forma di scetticismo, indifferentismo o razionalismo fosse del tutto scomparsa. Non desta quindi meraviglia che un numero sempre maggiore di medievisti faccia riemergere figure ed episodi poco conformi agli usuali cliché. Le Roy Ladurie aveva già mostrato come nel cuore del catarismo si incontrino manifestazioni di eterodossia del tutto inattese, debitamente registrate dagli inquisitori (a testimonianza del fatto che quando si voleva scavare si finiva sempre col trovare qualcosa). Le comunità locali permettevano una gamma di “filosofie” individuali, spesso radicate nel substrato folklorico, assai più ampia di quel che farebbero pensare i nostri stereotipi storiografici. L’incredulità, “raramente totale, spesso parziale”, è diffusa nelle valli intorno a Montaillou. Un contadino crede che l’anima non sia altro che sangue [1]:

E sicuramente questa anima sanguigna si riduce a nulla dopo la morte. Raymond de l’Aire non crede alla resurrezione. D’altronde quello che dicono i preti è una burla. Il paradiso è quando si sta bene in questo mondo; l’inferno quando si sta male! Ecco tutto.

Forme di “spinozismo selvaggio” sono altrimenti attestate. Il contadino di cui abbiamo sopra parlato condivide con altri l’idea che Dio e la Vergine non sono altro che il mondo in cui viviamo. Un tale materialismo radicale non è affatto isolato. Giordano da Pisa, dal convento di Santa Maria Novella, lamentava davanti ai contemporanei di Dante che Molti ne sono ogi i quali non credono che altra vita sia o che meglio vi possa essere che questa… [2]

Non si può nemmeno dire che tali bizzarrie non avessero alcun rilievo nella discussione accademica. Rolando da Cremona inizia il suo commento al libro di Giobbe spiegando perché ritiene opportuno anteporre una dimostrazione filosofica dell’immortalità dell’anima. [3] La ragione è la seguente:

Quoniam multi sunt qui credunt animam humanam esse corruptibilem et simul mori cum morte sui organi, nec non plerique qui hoc dubitant, […] idcirco nobis visum est esse utile […] philosophie ponere rationes de anime humane immortalitate.

Multi sunt che credono l’anima venir meno con la morte del corpo, nec non plerique sono incerti al riguardo. Evidentemente il dubbio, persino sulla immortalità dell’anima, non doveva essere così infrequente. In realtà è difficile sorprendersi di qualcosa che dovremmo dare per scontato. Più interessante è un altro fatto: questa incredulità sotterranea preoccupava la chiesa assai meno dell’eresia. [4] Eppure non mancano, di tanto in tanto, denunce clamorose.

Distruzione di un idolo
Distruzione di un idolo.
Francia, ca. 1335 (da Mandragore).

 

Alla fine del XII secolo Simone di Tournai (†1201) è uno dei più influenti maestri parigini. Traspare dai suoi scritti una punta di ironia, forse anche di orgoglio. L’uso di Abelardo, Gilberto Porretano, Giovanni Scoto ed Aristotele poteva allarmare i teologi più conservatori, ma per quanto capace di affermazioni provocatorie (come quella secondo la quale sono stati erroneamente canonizzati molti dannati) ben poco nella sua opera giustifica i sospetti di eterodossia circolanti dopo la sua morte. [5]

Alcuni aneddoti ne mettono in mostra il carattere aspro e i conflitti con il potere ecclesiastico. Di mediocre e accidentata carriera nella chiesa, penò a lungo per ottenere una rendita. Recatosi a Roma cercò invano udienza presso il papa. Indignato dalla venalità della curia romana avrebbe esclamato pubblicamente che «non si entra da Simon Pietro senza passare da Simon Mago». [6]

La storia è riportata dal suo contemporaneo Gérald de Barry (o Giraldus Cambrensis, †1220), secondo il quale Simone aveva opinioni non corrette sugli articoli di fede e le esprimeva senza timori in privato sebbene non osasse esporle in pubblico. Si sarebbe spinto fino a proferire le seguenti parole: «Dio onnipotente, per quanto a lungo durerà questa setta superstiziosa dei cristiani, questa nuova invenzione?». La punizione divina non poteva tardare: la notte stessa fu colpito, forse da un ictus, perdendo le sue facoltà mentali e ritrovandosi nelle condizioni di un bambino incapace di leggere e scrivere. [7]

La nostra fonte riconosce che non vi era alcuna accusa formale nei suoi riguardi ed è probabile che si trattasse solo di dicerie, alla base delle quali potrebbe esserci ben poco. L’immagine di un uomo tra i più sapienti della sua epoca divenuto di colpo un balbuziente analfabeta era da sola sufficiente ad eccitare l’immaginazione dei contemporanei. Una malattia così opportunamente appropriata doveva per forza essere la conseguenza di qualche grave peccato e in assenza di accuse note si sarebbe speculato su quali cause lo avessero condotto a un tale destino, magari inferendole dal carattere. La storia si prestava a diventare un exemplum di grande suggestione e di enorme potenziale simbolico. Infatti ne furono offerte versioni differenti, aventi in comune solo il drammatico epilogo.

Qualche anno più tardi Matteo Paris (†1259) la racconta in altro modo. Dovendo Simone rispondere ad alcuni difficili quesiti riguardanti la Trinità, si radunò una gran folla di studenti di teologia, convenuti per ascoltarlo. Le soluzioni offerte furono talmente chiare, eleganti e cattoliche da far rimanere tutti stupefatti. Alla fine, mentre si assiepavano intorno a lui gli ascoltatori entusiasti, Simone asserì temerariamente che sarebbe stato capace di provare il contrario di quanto appena dimostrato con ragioni ancora più forti, se avesse voluto confutare la legge divina. A tale atto di superbia seguì immediata la punizione: perse di colpo la parola e il sapere, riducendosi ad imparare faticosamente dal figlioletto, nel tempo rimastogli da vivere, il Pater noster e il Credo. [8]

In Matteo Paris è messa in evidenza la superbia, l’orgoglio intellettuale del maestro, che pretende di sottomettere anche le cose più sacre alla forza della sua dialettica. Un certo relativismo dottrinale è forse implicito in una posizione del genere, ma siamo lontani dal virulento attacco anticristiano attribuito a Simone nella precedente testimonianza.

Più vicina a quella di Gérald de Barry (e di più diretto interesse per noi) è la terza versione della storia. La riferisce il domenicano Tommaso di Cantimpré (†1263), secondo il quale Simone, alla fine di una disputa scolastica, giunse a sostenere che Mosè, Gesù e Maometto con le loro sette e i loro dogmi avevano soggiogato il mondo: Tres sunt, inquit, qui mundum sectis suis & dogmatibus subiugantur: Moyses, Iesus & Mahometus. [9] Appena finito di pronunciare tali parole pro humana voce mugitum emisit e cadde in una sorta di mutismo, privato di tutta la sua scienza e capace di ripetere solo il nome della sua concubina. Siamo di fronte a una fra le prime attestazioni del tema dei “tre impostori”, divenuto celebre in età moderna. [10]

Apocalisse
Et vidi de mari bestiam ascendentem (Ap. 13,1)
Inghilterra, ca. 1255 (da Corsair).

 

È dubbio che una tale dottrina possa essere ascritta a Simone. Negli anni in cui scrive Tommaso di Cantimpré la storia già circolava in riferimento a ben altri personaggi. Nel 1239, dopo che Federico II di Svevia era stato scomunicato, papa Gregorio IX pubblica una violentissima enciclica che inizia evocando la bestia dell’Apocalisse (ascendit de mari bestia blasphemie plena nominibus, Ap. 13, 1) e descrive l’imperatore come iste, qui gaudet se nominari preambulum Antichristi. [11] Fra i tanti crimini commessi gli rinfaccia di affermare che il mondo era stato ingannato da tre furfanti, dei quali Mosè e Maometto erano morti fra gli onori, mentre Gesù era morto in croce come un malfattore. [12] All’accusa rispose un’indignata lettera di Federico, conservata nell’epistolario di Pier delle Vigne. [13] In questa lettera aperta, indirizzata a tutti i prelati (universis prelatis), si rimprovera al papa di calunniare l’imperatore attribuendogli parole da lui mai pronunciate sui “tre seduttori” dai quali il mondo sarebbe stato ingannato.

Quali che siano le origini della storia, probabilmente anch’esse come per la parabola dei tre anelli rintracciabili nel milieu islamico, [14] si tratta di una testimonianza preziosa sull’esistenza di forme di critica religiosa e, al tempo stesso, di indifferentismo: si attaccano le tre principali religioni considerandole tutte ugualmente false.

Forse sembrerà eccessivo parlare di “indifferentismo” dottrinario, quasi ci fosse dietro una matura consapevolezza filosofica. Si può dubitare che in parole del genere una mente medievale riuscisse a scorgere solo una volgare dimostrazione di blasfemia. Dopotutto il pericolo di anacronismi è sempre in agguato. Nel caso si avessero di queste incertezze, viene in nostro aiuto un autorevole maestro universitario, che possiamo supporre capace di valutare in modo accurato le implicazioni concettuali di un discorso. Nelle Quaestiones disputate de fide Matteo di Acquasparta polemizza contro quegli scettici che non credono in alcuna verità indiscutibile e per i quali nihil est peccatum, nisi quod est contra consuetudinem. Costoro, mentre indifferentemente (indifferenter) ritengono valide tutte le leggi, allo stesso tempo tutte quante le distruggono. [15] Con ogni evidenza abbiamo di fronte una forma, ben delineata, di indifferentismo. Ebbene, subito dopo Matteo aggiunge: Istius erroris dicitur fuisse Fridericus, qui fuit imperator; qui omnes legatores reputabat truffatores. Senza la minima esitazione l’errore di Federico viene ricollegato a un’opzione filosofica di indole scettica. Siamo al di là della bestemmia occasionale, della boutade detta allo scopo di impressionare. Il maestro francescano non ha dubbi nel vedere qui una manifestazione di indifferentismo ideologico.

Federico II
Raccolta di scritti di medicina
con dedica a Federico II, XIII secolo
(Montpellier, Bibliothèque interuniversitaire)
 

È pur vero che, diversamente da quanto avviene per la parabola dei tre anelli, dei “tre impostori” abbiamo solo attestazioni in negativo. Mentre la prima darà luogo a una tradizione narrativa che la proporrà al pubblico europeo con una certa simpatia, non abbiamo nel Medioevo testimonianze dei “tre impostori” che non considerino blasfema la storia. Ci si riferisce ad essa per accusare di empietà qualcuno o per difendersi dall’accusa di averla sostenuta. Tuttavia, seppure in questa forma indiretta, la storia era conosciuta, veniva diffusa e circolava. Sicuramente destava scandalo e riprovazione per la sua blasfemia, ma non avrebbe avuto udienza se non avesse colpito l’immaginazione dei contemporanei. In entrambi i casi esaminati, di Simone e di Federico, la storia è stata utilizzata al fine di gettare cattiva luce sui destinatari dell’accusa. Ad ogni modo tali episodi testimoniano la circolazione − anche a livello di aneddotica − di un tema polemico che diventerà uno dei cavalli di battaglia del successivo libertinismo intellettuale.

 


NOTE

[1] E. LE ROY LADURIE, Storia di un paese: Montaillou, tr. it di G. Bogliolo, Rizzoli, Milano 1998, p. 376.

[2] A. MURRAY, Piety and Impiety in Thirteenth-Century Italy, in G. J. CUMING – D. BAKER (eds.), Popular Belief and Practice, Cambridge University Press, Cambridge 1972, pp. 83-106. La citazione è a p. 102. Murray enumera un ricco campionario di empietà denunciate come correnti nelle prediche medievali. Molte di esse sono riconducibili a forme di scetticismo. Ad esempio la transustanziazione nel miracolo eucaristico − riconoscono i predicatori − «pare dura cosa a credere» (p. 99). L’articolo di Murray ha profondamente influenzato una serie di contributi successivi. D. WOOTTON, Lucien Febvre and the Problem of Unbelief in Early Modern Europe, in «Journal of Modern History» 60 (1988), pp. 695-730, ha messo in guardia da interpretazioni semplicistiche della celebre tesi di L. FEBVRE (Il problema dell’incredulità nel secolo XVI. La religione di Rabelais, tr. it. di L. Curti, Einaudi, Torino 1978), secondo la quale non si può parlare di ateismo prima dell’Illuminismo. Se possiamo concordare sul fatto che prima del XVIII secolo non vi era un quadro intellettuale compatibile, ciò non toglie che singoli atei (per quanto poco influenti) ci siano stati. J. EDWARDS ha mostrato esempi di incredulità nella Spagna di Torquemada: Religious Faith and Doubt in Late Medieval Spain: Soria circa 1450-1500, in «Past and Present» 120 (1988), pp. 3-25. S. REYNOLDS ha fornito un’eccellente sintesi della questione, approfondendone il significato storiografico: Social Mentalities and the Case of Medieval Scepticism, in «Transactions of the Royal Historical Society» 6th ser., 1 (1991), pp. 21-41. Cfr., da prospettive diverse, F. NIEWÖHNER – O. PLUTA (hrsg.), Atheismus im Mittelalter und in der Renaissance, Harrassowitz, Wiesbaden 1999.

[3] A. DONDAINE, Un commentaire scripturaire de Roland de Cremone: le Livre de Job, in «Archivum fratrum praedicatorum» 11 (1941), p. 113.

Mandragore
Musulmano distrugge un idolo.
Iraq, XIV sec. (da Mandragore).

 

[4] Cfr. B. HAMILTON, Religion in the Medieval West, Arnold, London 1986, p. 190: «It is not surprising that there should have been people who reacted against the whole ethos of medieval society by denying the importance of the church’s teaching and by taking self-interest alone as a sufficient guide for their lives. Naturally the devout among their contemporaries were deeply shocked by the open avowal of such sentiments, but the church authorities on the whole accepted the situation, treated these men as lapsed Catholics who had a right to Christian burial, and did not seek to discipline them unless, like Raymond de l’Aire, they were suspected of associating with heretics».

[5] SIMONIS TORNACENSIS Disputatio 92, q. 4: Multi enim damnati errore Ecclesiae sunt canonizati. Su Simone si vedano le pagine introduttive di J. Warichez al testo delle Disputationes: J. WARICHEZ, Les Disputationes de Simon de Tournai. Texte inédite, Spicilegium Sacrum Lovaniense, Louvain 1932.

[6] GIRALDI CAMBRENSIS Gemma Ecclesiastica, d. 1, 51, (in Opera II, edited by J. S. Brewer, London 1862, p. 149): Profectus enim ad curiam romanam fuerat, et quoniam aditum ad dominum papam pro libitu habere non poterat, in audientia cancellarii magnorumque de curia virorum verbum hoc insolenter emisit: “Non intratur ad Simonem Petrum nisi per Simonem Magum”; vel sic “Simon Tornacensis intrare nequit ad Simonem Petrum nisi per Simonem Magum”. Unde dominum papam et totam curiam adeo offensam reddidit, quod nihil ibi vel parum proficere poterat.

[7] Ibid.: multarum vir erat literarum, sed circa fidei articulos non sane sentiebat, et hoc, quia publice non ausus fuerat, coram privatis, tamen plurimis, profiteri non verebatur. Hic, cum aliquando in tantam rabiem raperetur, ut etiam in fidem Christianam inveheretur, inter cætera, nonnullis audientibus, et hoc, ut dicitur, ore blasphemo, non minus impudenter quam imprudenter, verbum emisit, “Deus omnipotens, superstitiosa Christianorum hæc secta, et novella nimis hæc adinventio quamdiu durabit!” et nocte eadem experrectus a somno, divina statim ultione secuta, se sine literis fere infatuatum pariter et elinguem invenit, et sic usque ad obitum permansit inutilis et imbecillis.

[8] MATTHÆI PARISIENSIS Chronica Majora II, ad annum 1201 (Rolls Series 57, 2), ed. by H. Richards Luard, Longman & Co., London 1874, pp. 476-477: De magistro Simone de Turnai. Ipsis quoque diebus, quidam magister Parisiensis natione Francus, nomine Simon, cognomento de Thurnai, ingenio capacissimus et memoria tenacissimus, cum per decennium scholas artium nobilissime rexisset, utpote in trivio et quadrivio, id est, septem liberalibus artibus peritissimus, se contulit ad theologiam; in qua cum lecturisset infra paucos annos, adeo profecit, quod dignissime cathedram ascendit magistralem. Legit igitur subtiliter valde et subtilius disputavit, quæstiones difficillimas et inauditas solvendo et eleganter dilucidando; tot igitur habuit auditores, quot amplissimum palatium potuit continere; una igitur dierum cum nimis profundis rationibus in medium propositis de Trinitate subtilissime disputasset, et dilata fuisset determinatio usque in crastinum, omnes theologi scolares in civitate, præmuniti ad audiendum tot quæstionum inexplicabilium solutiones, ad ipsius famosam scolam certatim ac catervatim confluxerunt. Determinavit igitur magister omnes praetactas quaestiones; et quae videbantur omnibus inenodabiles, tam dilucide, tam eleganter, tam catholice, ut omnes auditores redderet stupefactos. Et post determinationem accesserunt quidam ipsius familiariores et ad discendum avidiores, postulantes a magistro, ut eo dictante quaestiones illas literis commendarent; dixerunt itaque indignum esse et jacturam irrestaurabilem, si memoria tantae scientiae deperiret. Quibus ipse elatus, et major sibi se, ait oculis sullevatis et temere solutus in caehinnum, “O Jesule, Jesule, quantum in hac quaestione confirmavi legem tuam et exaltavi; profecto si malignando et adversando vellem, fortioribus rationibus et argumentis scirem illam infirmare et deprimendo improbare.” Et hoc dicto, elinguis penitus obmutuit, non tantum mutus, sed idiota et ridiculose infatuatus, nec postea legit vel determinavit, et faetus in sibilum et derisum omnibus qui hoc audierant. Vix igitur infra biennium didicit literas cognoscere, et ultione aliquantulum mitigata, a filio suo quodam diligenter edocente, vix potuit Pater noster et Simbolum discere, retinere, et balbutiendo pronunciare. Hoc igitur miraculum mulorum scolarium suppressit arrogantiam et jactantiam refraenavit. Una versione più breve dello stesso testo si trova in MATTHÆI PARISIENSIS Historia Anglorum (o Historia minor) II (Rolls Series 44, 2), ed. by F. Madden, Longmans & Co., London 1866, p. 90.

[9] THOMAE CANTIPRATANI Bonum universale de apibus II, 48, Ex typographia Baltazaris Belleri, Duaci 1627, pp. 440-441: De Simone Tornacensi, Doctore Parisiensi superbo et incontinente, qui post blasphemiam mirabiliter a deo percussus est. […] in execranda contra Christum blasphemiae verba prorupit. Tres sunt, inquit, qui mundum sectis suis & dogmatibus subiugantur: Moyses, Iesus & Mahometus. Moyses primo Iudaicum populum infatuavit. Secundo Iesus Christus a suo nomine Chri- stianos. Tertio Gentilem populum Mahometus. Nec mora, eversis oculis pro humana voce mugitum emisit, et epilepsia statim elisus in terram, die tertio eiusdem morbi vindictam accepit. […] Et vide supremae admirationis miraculum. Aleydem fornicariam concubinam suam nominare poterat, et sciebat: Boetium vero de Trinitate qui iuxta eum ad spectaculum ponebat, quem olim cordetenus scierat, post inditam plagam, nec nominare noverat, nec volebat.

Tre impostori

[10] Dopo il fondamentale articolo di M. ESPOSITO, Una manifestazione d’incredulità religiosa nel medioevo. Il detto dei «Tre impostori» e la sua trasmissione da Federico II a Pomponazzi, «Archivio storico italiano» serie VII, vol. XVI, anno LXXXIX, (1931), pp. 3-48 si veda ora T. GRUBER, The Three Impostors. Travels of a Radical Idea in the 13th Century, comunicazione tenuta in occasione del IV Congrès Européen d’Études Mèdiévales, Palermo, 23-27 giugno 2009. Per una storia complessiva dell’idea si può ricorrere a G. MINOIS, Il libro maledetto, tr. it. di S. Arena, Rizzoli, Milano 2009. Sulla sua fortuna in età moderna cfr. l’introduzione di S. BERTI all’anonimo Trattato dei tre impostori. La vita e lo spirito del signor Benedetto de Spinoza, a c. di S. Berti, Einaudi, Torino 1994. Utile anche G. PAGANINI, Filosofie clandestine, Laterza, Roma-Bari 2008.

[11] MGH epistolae selectae I, n. 750, pp. 645-654.

[12] Op. cit., p. 653: iste rex pestilentie a tribus barattatoribus, ut eius verbis utamur, scilicet Christo Iesu, Moyse et Machometo, totum mundum fuisse deceptum, et duobus eorum in gloria mortuis, ipsum Iesum in ligno suspensum manifeste proponens.

[13] PETRI DE VINEIS epistolarum libri I. 31, per Paulum Quecum, Basileae 1566, p. 211: Inseruit enim falsus Christi Vicarius, fabulis suis, nos Christianae fidei religionem recte non colere, ac dixisse tribus seductoribus mundum esse deceptum: quod absit de nostris labijs processisse. Si veda pure J.- L.-A. HUILLARD-BRÉHOLLES, Historia diplomatica Friderici Secundi V. 1, Plon, Paris 1857, p. 349. Su tutto l’episodio cfr. E. KANTOROWICZ, Federico II, Imperatore, tr. it. di G. Pilone Colombo, Garzanti, Milano 2000, pp. 493-494 (peraltro non esente da qualche imprecisione).

[14] L. MASSIGNON, La légende de tribus impostoribus et ses origines islamiques, in «Revue de l’Histoire des Religions» 82 (1920), pp. 74-78; P. MARCOLINI, Le De tribus impostoribus et les origines arabes de l’athéisme philosophique européen, in «Les Cahiers de l’ATP», octobre 2003. Parallelo al tema dei tre impostori, ma con esiti differenti, si diffonde il tema dei tre anelli. Si veda in particolare BOCCACCIO, Decameron I, 3. Sulle sue origini cfr. M. PENNA, La parabola dei tre anelli e la tolleranza nel medio evo, Rosenberg & Sellier, Torino 1953; I. SHAGRIR, The parable of the Three Rings: a revision of its history, in «Journal of Medieval History» 23 (1997), pp. 163-177; F. SOSIO, La parabola dei tre anelli nella tradizione letteraria e religiosa dell’Occidente medievale, in «Rivista di storia del cristianesimo» 4 (2007), pp. 49-71.

[15] MATTHAEI AB AQUASPARTA Quaestiones octo de fide, q. 3, in Quaestiones disputatae selectae, Ad Claras Aquas (Quaracchi), 1903, p. 82: Respondeo dicendum, quod circa istam quaestionem erraverunt aliqui, dicentes, quod nulla est lex, nulla. est fides firma aut stabilis, sed in omni secta quidquid credatur, quomodocumque vivatur, potest obtineri salus, dummodo non abhorreat a consuetudine. Et isti ponunt, quod nihil est peccatum, nisi quod est contra consuetudinem. Sed dum indifferenter astruunt omnem legem, omnem legem destruunt. – Istius erroris dicitur fuisse Fridericus, qui fuit imperator; qui omnes legislatores reputabat truffatores. Iste error pessimus est et periculosissimus inter omnes errores, quia aperit viam peccatis, concedit licentiam malefaciendi et praecludit viam virtutibus, implicat contradictoria, dum ponit, idem esse virtutem et vitium, idem verum et falsum, nullum posse errare, nullum posse peccare; aufert divinum cultum, aut ponit, Deum vitiis et spurcitiis coli; quae omnia istum errorem, absurdissimum reddunt. Et ideo veritas sana dictat, et ratio recta confirmat, indubitanter asserendum, aliquam esse fidem et legem fixam et stabilem, quam non licet sine detrimento salutis transgredi, et illam dictat esse unam solam omnibus gentibus communem, ita quod in nulla alia salus est.

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