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Tag: filosofia e teologia

Timor Domini

 

Timore, dolore, obbedienza
La paura e il ruolo della mediazione sacramentale

Fear, sorrow, obedience and the role of sacramental mediation
da «Filosofia e Teologia» 26 (2012), pp. 332-339

 


 

ABSTRACT

Se il timore di Dio non può essere ridotto al timore della pena e del castigo, quest’ultimo è comunque centrale sia per una comprensione di come il concetto si è articolato nel corso della storia, sia per le implicazioni dottrinali. Infatti, in collegamento con la nozione di attritio, il timor gehennae assume un ruolo essenziale nel sacramento della penitenza e intorno ad esso si combatte un’importante battaglia sul ruolo della Chiesa e della sua mediazione sacramentale.

Whilst the fear of God is not reducible to fear of punishment and retribution, the latter is essential to understand the historical development of the concept. In fact, together with the notion of attrition, the “timor gehennae” plays a pivotal role in the sacrament of penance and is the battleground of an important fight about the role of the Church and her sacramental mediation.

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Fear God Onlye? (tychofarrar, on Flickr).

 


 

Il senso della finitezza dell’uomo, l’angoscia esistenziale, il mysterium tremendum di fronte al sacro che ci travolge sono – come negarlo? – aspetti essenziali della dimensione religiosa. È legittimo e proficuo ricordare che anche il timor domini, troppo spesso e troppo semplicisticamente ridotto alla sola accezione di timor servilis, timore del castigo, affonda in realtà le sue radici in una gamma ben più ampia e profonda di sentimenti. Del resto, la stessa teologia scolastica, che pure non ha trascurato di far largo uso del timor servilis, ben sapeva che quest’ultimo era solo un aspetto del donum timoris, e non il più importante [1]. Tuttavia, pur riconoscendo ciò, resta il fatto che una larga parte della riflessione teologica e della predicazione hanno posto al centro della loro attenzione la paura del castigo eterno. Ridefinire oggi il timore di Dio in modo da escludere una porzione consistente, se non addirittura preponderante, dei significati assunti dal concetto nel corso della storia rischia di portare a una sostanziale incomprensione di questa stessa storia.

Certo, l’esperienza della finitezza è fondamentale, rappresenta la radice ultima di quel complesso di idee, rappresentazioni e sentimenti cristallizzate nell’espressione timor domini. Ma le fondamenta di un edificio, pur imprescindibili, non spiegano tutto quel che su di esse viene costruito: la forma di un fabbricato dipende anche da altri fattori, non irrilevanti al fine di apprezzarne il valore e la funzione. Che ruolo ha giocato dunque il timore servile? Su di esso si è combattuta una battaglia di non poco conto: ignorarla o trascurarla difficilmente ci condurrà a una comprensione più autentica dei nodi concettuali sottintesi.

Un singolo episodio, forse non troppo importante in sé, ci permetterà di ricapitolare brevemente una molto più lunga serie di questioni. Prima, però, osserviamo che la tradizione scolastica non è stata univoca nel definire i vari significati di timor [2]. In Pietro Lombardo troviamo uno schema quadripartito dove tra il servilis e il castus compare la variante intermedia del timor initialis, la cui definizione resta peraltro abbastanza vaga:

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Al timore servile si guarda come qualcosa di buono e utile, sebbene da solo insufficiente. Serve, in una prima fase, a educare e ad abituare al giusto, fino a quando non si cominci ad amare quel che prima ci appariva duro [3]. Per quanto possa apparire strano che l’amore scaturisca dall’imposizione e dall’abitudine, una tale pedagogia dell’autorità non è priva di una sua efficacia pratica e costituirà il principio direttivo su cui si fonderanno, da Agostino in poi, le giustificazioni del ricorso alla coercizione in materia di fede [4].

Ma le classificazioni erano varie. Nel De dono timoris di Umberto di Romans, maestro generale dei domenicani al tempo di Tommaso, troviamo elencate sette diverse specie di timore (Umberto stesso osserva che altri proponevano distinzioni differenti) [5]. Fra queste la servile sembra considerata con meno favore: se non è peccato di per sé, tuttavia non libera dal peccato e vi rimane attaccata. Anche in questo caso, come in Pietro Lombardo, il criterio ordinatore è il grado di maggiore o minore bontà.

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L’esigenza di completezza e simmetria porta a distinguere tra timore mondano e umano e in ultimo fa introdurre una forma reverenziale, comune sia agli uomini sia agli angeli. Compare, in mezzo, un timore naturale, né buono né malvagio, insito nel nostro stesso essere e tendente a evitare conseguenze nocive.

Al di là delle differenze, in tutti gli schemi troviamo l’esigenza di introdurre una o più forme intermedie tra servilis e filialis, che non siano totalmente cattive o pienamente buone. Il passaggio dall’uno all’altro pare troppo brusco e va in qualche modo sfumato. Certo, i moti dell’animo umano, con la loro complessità, sono difficilmente afferrabili in formule univoche, ma qui non è l’analisi psicologica a essere in questione. Oggetto del discorso è la valutazione teologica della bontà del timore: le ambiguità della psiche umana sono, al riguardo, poco rilevanti e non impediscono di per sé una presa di posizione dottrinale. Per capire le ragioni di questa persistente opacità del timore servile dobbiamo guardare altrove. Facciamo dunque un salto in avanti.

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L’unica copia sopravvisuta della prima edizione del Beneficio di Giesu Christo (St. John’s College, Cambridge).

 

Il Trattato utilissimo del beneficio di Giesù Christo crocifisso verso i Christiani è l’espressione più nota e influente delle aspirazioni di riforma della Chiesa che nella prima parte del XVI secolo percorrono anche l’Italia, in sintonia con quanto accade in Germania e nel resto d’Europa [6]. Pubblicato in forma anonima nel 1543, conobbe «una prodigiosa fortuna», almeno finché non fu posto nel Catalogo dei libri proibiti redatto dal Della Casa nel 1549 [7]. Verso la fine del testo incontriamo una breve ma significativa riflessione sul timore di Dio. La tavola degli argomenti così riassume questa sezione conclusiva: «La Scrittura santa con il timore servile menaccia li tristi e con il filiale esorta li buoni cristiani» [8].

Motivo conduttore dell’opera è la giustificazione per fede, a cui però si potrebbero opporre quei «luoghi della Scrittura santa, i quali esortano l’uomo al timore, il quale pare che sia contrario alla certezza della predestinazione» [9]. La risposta, chiara e netta, è che il «timore penale» è proprio del Vecchio Testamento, mentre il Nuovo è contraddistinto dall’amore filiale. Ne consegue che «’l timore penale e servile non conviene al cristiano», infatti questo timore «è contrario alla allegrezza spirituale» che caratterizza l’esperienza cristiana e alla quale Paolo invitava esortando a vivere «sempre allegri» [10]. «Adunque, quando la Scrittura santa menaccia e spaventa, i cristiani debbano intendere che parla alli cristiani licenziosi» [11]. Costoro debbono «esser trattati come servi e tenuti in timore, infin che gustino quanto è soave il Signore», pervenendo all’amore filiale. Quando invece la Scrittura «esorta i cristiani veri al timore, non intende che debbiano temere il giudicio e la ira di Dio, quasi che egli sia per condannarli». Il timore a cui ci si riferisce è, in questo caso, filiale e non servile: piuttosto che nella paura del castigo consiste nel desiderio di non offendere Dio, essendo consapevoli dei limiti e della debolezza della nostra natura. «Non deeno mai i cristiani buoni spogliarsi del tutto di questo timore filiale, il quale è amicissimo della carità cristiana, sì come il servile nemico, né con lei può stare» [12]. Non ci sono ambiguità: il timore della pena non si accorda con la disposizione d’animo che deve avere il buon cristiano. L’uno esclude l’altra. La paura della punizione non ha alcun ruolo positivo ai fini della giustificazione, nemmeno in via transitoria.

asieltimordeiMaestro di Calamarca, Arcangelo archibugiere: Asiel Timor Dei,
Museo Nacional de Arte, La Paz, Bolivia (da khanacademy.org

 

Posizioni simili erano sostenute, in quegli anni, dagli esponenti della riforma in Germania [13]. La differenza con le laboriose meditazioni della scolastica a proposito del donum timoris è stridente. La cosa non poteva passare inosservata e quando nel 1544 Ambrogio Caterino Politi denuncia gli «errori e inganni luterani», contenuti nel Beneficio, non manca di osservare questo «dir contra la dottrina d’ogni buono autore e de’ santi predicatori, e’ quali predicandoci il timore di Dio e l’ira sua nel gran giorno del giudizio, han ridotto molti uomini a la vita buona». A irritare il frate domenicano è l’idea che «il vero cristiano non debba temere il giorno del giudizio e de l’ira di Dio» [14]. A ben considerare il timore è una passione dell’anima, che spinge a fuggire il male. Quel che conta è allora la radice da cui procede questa spinta: in tutti i casi è l’amore, che però può essere di sé o di Dio [15]. L’amore di Dio produrrà il timore buono e filiale, d’altra parte l’amore di sé non è necessariamente cattivo: solo quando sia disordinato lo diventa. Ciascuno, infatti, «è obbligato a amare se stesso, ma sotto Dio e dopo di lui» [16]. A condizione di non anteporre il nostro bene egostico a quello di Dio, l’amore di sé non deve essere vituperato e la paura della dannazione eterna, anche qualora nasca dall’istinto di evitare il male, svolge comunque una funzione positiva. Quando si accompagna al corretto riconoscimento del primato di Dio va considerata buona e conveniente, e persino quando la paura della pena convive ancora con la volontà di peccare continua a essere utile. Sebbene «defettuoso e servile … questo timore è iniziativo dell’amore» e discende anch’esso dallo Spirito Santo [17]. Obbligata qui la citazione di un noto passo agostiniano: «come insegna elegantemente sant’Agostino, assimigliando questo timore a una setola che ha seco legato un filo, con la quale setola quello che cuce introduce il filo nel panno, e così esce fuor la setola lassando il filo: tal effetto fa questo timor della pena, che introduce l’amor di Dio e lui si parte» [18]. Catarino Politi concede che la perfetta carità scacci il timore, ma aggiunge subito dopo che una tale perfetta carità non è di questo mondo. Ne consegue che «non può essere l’uomo senza qualche timor penale… mentre che siamo ne lo steccato de la pugna e ne lo stadio del corso» [19].

La contrapposizione tra le due visioni non poteva essere più netta, A innescarla, come abbiamo visto, è stata la controversia sulla predestinazione e sulla certezza dell’elezione divina. Ma in gioco c’è anche dell’altro. Perché è stato tanto importante, dal punto di vista cattolico, difendere il ruolo del timore servile? Il Concilio di Trento sentirà il bisogno di chiarire che il timore della giustizia divina rientra tra le condizioni per le quali il peccatore prepara la giustificazione mediante la grazia di Dio. Ritenere che la paura dell’inferno sia un male è dottrina, dopo Trento, solennemente sottoposta ad anatema [20]. Condanne simili saranno di nuovo pronunciate contro i giansenisti [21] e, al termine di un lungo e coerente sviluppo dottrinale, verrà ulteriormente ribadito che il timor gehennae, oltre a essere buono e utile, è un dono soprannaturale e motus a Deo inspiratus [22].

640px-Vincent_van_Gogh_-_SorrowVincent Van Gogh, Sorrow
(New Art Gallery, Walsall)

 

Sotto quelle che potrebbero apparire oziose controversie scolastiche un problema ben reale rischia di sconvolgere l’architettura complessiva della vita sacramentale: qual è il grado di dolore e di pentimento richiesto per la remissione dei peccati? Perché se è necessaria una piena contrizione (contritio), questa di per sé giustifica, anche senza il sacramento. Se invece è sufficiente una contrizione imperfetta (attritio), si può dubitare che ciò faccia diventare il sacramento qualcosa di puramente esteriore, senza un’adeguata intima trasformazione del soggetto penitente. Le ricadute, a cascata, investono dunque la funzione della penitenza, il potere delle chiavi e la stessa mediazione gerarchica della chiesa. Attrizione e timore servile sono concetti strettamenti legati fra loro, insieme sono presi di mira e insieme vengono difesi. Di attritio parlano soprattutto i grandi maestri francescani del XIII secolo (Alessandro di Hales, Bonaventura e Duns Scoto) [23], trovando però una violenta opposizione tra le fila dei riformatori [24]. il Concilio di Trento, di fronte agli attacchi, cristallizzerà la dottrina con queste parole:

Quanto a quella contrizione imperfetta, che viene detta attrizione perché prodotta comunemente o dalla considerazione della nefandezza del peccato o dal timore dell’inferno e delle pene, se esclude la volontà di peccare e si accompagna con la speranza del perdono, il concilio dichiara che non solo non rende l’uomo ipocrita e ancor più peccatore, ma è addirittura un dono di Dio e un impulso dello Spirito Santo… E quantunque da sola, senza il sacramento della penitenza, non possa condurre il peccatore alla giustificazione, tuttavia lo dispone a ottenere la grazia di Dio nel sacramento della penitenza [25].

Lasciamo da parte le ambiguità della formulazione e la difficoltà di concepire «un amore e timore di Dio naturali» (l’amor di sé e la paura di subire un danno) che d’altra parte siano «suscitati e determinati dalla grazia adiuvante di Dio» [26]. Non è però accidentale che mentre si tiene ferma la bontà dell’attritio, la si cerca di avvicinare alla contritio, sfumando le differenze proprio come è accaduto per il timor servilis e il filialis. Il nocciolo dello scontro non verte sulle caratteristiche che deve avere il dolore del penitente. La divisione dicotomica proposta da Lutero e dalla riforma, come pure la persistente ricerca di un punto di congiunzione intermedio da parte della Chiesa di Roma, rispondono a un’esigenza diversa. Con grande linearità il Dictionnaire de Théologie catholique dimostrava così la necessità dell’attritio: se per il sacramento della penitenza è richiesta una contrizione perfetta, che significato dovrebbe avere la remissione dei peccati da parte del sacerdote? I peccati, in questo caso, sarebbero perdonati senza che occorra l’assoluzione del prete. E allora il sacramento risulterebbe senza alcuna utilità e privo di ragion d’essere. «Nous ne pouvons nous arrêter à une conclusion qui répugne si évidemment à la divine sagesse» [27]. È necessario che vi sia uno stato in cui il sacramento possa perfezionare una disposizione non ancora sufficiente da parte dell’uomo. Per Harnack si trattava di una concezione alquanto magica del sacramento [28], ma è giusto questa efficacia, al di là di una piena conversione interiore, che fonda e legittima l’esistenza di una gerarchia mediatrice della grazia divina. Senza il timore della pena e la disponibilità di un medicamento, la Chiesa può solo offrire esempio e predicazione, sulla linea di Donato, Valdesio e della riforma protestante.

MandragoreL’inferno in un manoscritto del XIV sec.
(BNF Français 13096, da Mandragore)

 


NOTE

 

[1] Agonia, anxietas, verecundia, stupor e admiratio sono anch’essi da prendere in considerazione per delineare lo spazio semantico del timor. Se una radice unificante si può individuare questa è forse rappresentata dal carattere reverenziale del timore. Cfr. R. Quinto, “Timor reverentialis nella lingua della scolastica“, «Archivum Latinitatis Medii Aevi» 48-49 (1988-1989), 103-143 (http://hdl.handle.net/2042/3415), in particolare la p. 105.
[2] Si daranno solo alcuni esempi, senza la pretesa di voler offrire una trattazione esauriente. Lo scopo è di delineare uno sfondo generale più che esaminare i singoli autori. Tommaso, che qui non tratteremo, affronta il tema nel Commento alle Sentenze (III, d. 34, a. 2) e nella Somma Teologica (II-II, 19), prefigurando quella che sarà poi la celebre distizione tra timore serviliter servilis e simpliciter servilis.
[3] Pietro Lombardo, Sent. III, dist. 34 (PL 192, 824-825).
[4] Agostino, Ep. 93, 5, 16 (tr. it. di L. Carozzi, Roma, Città Nuova, 1969): «non deve considerarsi il fatto che uno venga costretto, ma se ciò a cui viene costretto sia bene o male. Non dico che uno possa essere buono per forza! Voglio dire che uno, per paura di un castigo che non è disposto a subire, o abbandona l’animosità che lo tiene lontano dalla verità conosciuta, o è costretto a conoscere la verità ignorata: la paura cioè lo potrebbe spingere a ripudiare la falsità per la quale lottava, o a ricercare la verità che ignorava, e infine a sostenere volentieri come vero ciò che prima non voleva. Parrebbe superfluo ripetere queste cose con tante parole, se non le vedessimo dimostrate da tanti esempi. Si tratta non già di singoli individui, ma di molte città che ora vediamo diventate cattoliche, che aborriscono cordialmente lo scisma istigato dal demonio e amano ardentemente l’unità».
[5] Humberti de Romanis De dono timoris, ed. C. Boyer, Turnhout, Brepols, 2008, p. 29 (CCCM 218).
[6] Benedetto da Mantova, Il Beneficio di Cristo, a c. di S. Caponetto, Firenze, Sansoni, 1972. Per una prima informazione sull’autore (e sulle influenze valdesiane che traspaiono dall’opera) si può consultare S. Caponetto, “Benedetto da Mantova”, in Dizionario biografico degli italiani 8 (1966), 437-441. Cfr. anche C. Ginzburg e A. Prosperi, Giochi di pazienza. Un seminario sul «Beneficio di Cristo», Torino, Einaudi, 1975.
[7] S. Caponetto, “Nota critica”, in Benedetto da Mantova, op. cit., pp. 469-470. Sull’attività inquisitoriale di Giovanni Della Casa si veda la sintesi di C. Mutini nel Dizionario biografico degli italiani 36 (1988), 699-719.
[8] Benedetto da Mantova, op. cit., 72v.
[9] Ibid. VI, 63r-64r.
[10] Phil. 4, 4. Cfr anche 1Petr. 1, 6.
[11] Benedetto da Mantova, op. cit. VI, 64r.
[12] Ibid., 64v.
[13] Melantone (Loci theologici, in Corpus reformatorum XXI, p. 886) si mostra sprezzante verso le «spinosae disputationes de amore iustitiae et timore poenae» e afferma che il discrimen è semplice e chiaro: il timore servile è senza fede (pavor sine fide) e in quanto tale cattivo, nel filiale interviene la fede che salva. La netta dicotomia non ammette stadi intermedi. Per il resto «Permittamus hoc genus disceptationis otiosis ingeniis» (p. 154).
[14] Ambrogio Catarino Politi, Compendio d’errori e inganni luterani, Roma, 1544, 49v (pubblicato da S. Caponetto nella citata edizione del Beneficio).
[15] Ibid., 51r.
[16] Ibid., 52r.
[17] Ibid., 52v.
[18] Ibid. Cfr. Agostino, In ep. Jo. IX, 4 (PL 35, 2047-48).
[19] Ibid., 53r.
[20] Concilio di Trento (1547), Decreto sulla giustificazione, c. 6. Il testo in H. Denzinger – P. Hünermann, Enchiridion symbolorum (d’ora in poi DH), Bologna, EDB, 2001, nn. 1526 e 1558.
[21] Cfr. nel 1690 il decreto del S. Uffizio sugli errori dei giansenisti (DH n. 2314-15) e la Cost. Unigenitus Dei Filius del 1713 (DH nn. 2460-67). Da notare che la paura della Geenna è buona e soprannaturale anche in assenza di amore verso Dio (come risulta da DH 2315).
[22] Cost. Auctorem fidei del 1794 (DH n. 2625).
[23] Cfr. A. Harnack, History of dogma VI.2 (transl. by W. Gilchrist, London, 1899, pp. 248-50).
[24] Lutero, De captivitate babylonica ecclesiae, Wittemberg, 1520 (l’edizione originale è consultabile sul sito della Biblioteca di stato bavarese: http://www.bsb-muenchen.de/): «Altri, peggiori e più inverecondi, inventarono una non so qual attrizione, che, per la virtù delle chiavi (di cui ignorano la vera forza), diventerebbe contrizione: e la donano agli empi e agli increduli, sicché in questo modo la contrizione è completamente vanificata» (tr. it. di I. Pin, Pordenone, Studio Tesi, 1984, p. 130).
[25] DH n. 1678.
[26] J. Auer, I sacramenti della chiesa, Assisi, Cittadella, 1989, p. 221 (si tratta del settimo volume della Piccola dogmatica cattolica di J. Auer e J. Ratzinger).
[
27] A. Beugnet, “Attrition”, in DThC 1 (1901), 2245.
[28] A. Harnack, op. cit., p. 225.

Keywords: Fear of God, Attrition, Contrition.

 

Una grazia universale e senza fine

La nota che segue è stata pubblicata la prima volta in un volume collettivo dell’Officina di Studi Medievali (Pagine medievali tra logos e dialettica, Palermo, 1990, pp. 79-85). A quel tempo disponevo solo della Patrologia Latina e degli Indices pseudo-dionysiani curati da A. van den Daele nel 1941. Ho deciso comunque di riproporre qui questo breve scritto con correzioni minime e senza aggiunte o aggiornamenti, a parte i riferimenti al testo dell’edizione critica del Corpus Dionysiacum.

Dionigi AreopagitaSan Dionigi (1301/1350 circa). Squinzano, Museo dell’Abbazia
di Santa Maria delle Cerrate. Fonte: Bildindex.

NOTE DIONISIANE I
CHARIS. LA NOZIONE DI GRAZIA IN DIONIGI L’AREOPAGITA

 

Lo Pseudo-Dionigi utilizza poche volte il termine χάρις ed esclusivamente nei due trattati sulle gerarchie.[1] Di χάρις non si fa menzione nell’opera sui Nomi divini e nemmeno nella Teologia mistica o nelle Lettere. Ma benché il termine appaia poco centrale nel vocabolario dionisiano, tuttavia è significativo il modo in cui viene utilizzato. In EH VI (533A) 116,19-20 troviamo che «la legislazione sacra diede loro [ai monaci] una grazia perfettiva» (τελεστικὴν αὐτοῖς ἐδωρήσατο χάριν ἡ ἱερὰ θεσμοθεσία). Ora, la grazia di cui si sta parlando viene qui concessa a uno specifico ordine gerarchico e non a un individuo. Non è il dono arbitrario di una volontà trascendente, rientra piuttosto in un ordinamento legale in virtù del quale è dispensata nella misura adeguata a ciascun grado della gerarchia. Quest’idea ricompare ancora in altri luoghi: ad esempio in CH III (168A) 19,21 laddove si legge che opera in forza di una grazia data da Dio «ciascun ordine della disposizione gerarchica» (ἑκάστη τῆς ἱεραρχικῆς διακοσμήσεως τάξις). Si potrebbe poi ricordare EH III (445B) 94,11-13 in cui è scritto che ogni disposizione sacerdotale (ἡ πᾶσα τῶν ἱερῶν διακόσμησις) apprezza e celebra le grazie delle opere divine (τὰς τῶν θευργιῶν… χάριτας) secondo la propria capacità (ἀναλόγως).

Complessivamente l’uso della parola all’interno del Corpus sembra definire uno spazio semantico in cui il carattere personale, individuale, del favore divino non è messo affatto in evidenza.[2] Soltanto in CH IV (181B) 23,2 si fa cenno di una χάρις personale e gratuita, ma si tratta giusto di esempio desunto dalla Scrittura: l’Arcangelo Gabriele rivela a Zaccaria che suo figlio, Giovanni Battista, «nato per grazia divina (χάριτι θείᾳ) contro ogni speranza», avrebbe annunciato «l’umana teurgia di Gesù», ovvero l’operazione divino-umana dell’Incarnazione.[3] Un esempio, per di più, inserito a esplicita giustificazione della necessità di intermediari gerarchici anche a proposito della grazia: il passo evangelico viene introdotto per spiegare che «al divino mistero dell’amore di Gesù per gli uomini furono per primi iniziati gli angeli, poi tramite loro la grazia di una simile conoscenza (ἡ τῆς γνώσεως χάρις) giunse a noi».[4]

mandragore L’arcangelo Gabriele e Zaccaria. Ms. greco dell’XI sec.
Fonte: Mandragore

Del resto il ruolo attribuito da Dionigi alla mediazione angelica è ben conosciuto e ampiamente documentato.[5] I secondi, gli inferiori, sono elevati mediante i primi o superiori: tutto l’ordinamento gerarchico dell’universo è regolato da questa legge fondamentale, di istituzione divina.[6] Ma a dipendere dagli angeli non è solo la nostra elevazione a Dio: anche il presupposto e il fondamento di questa, la partecipazione stessa degli uomini alla luce divina, è legata all’intermediazione angelica. La conversione gerarchica degli esseri ha per base la trasmissione, altrettanto gerarchica, delle illuminazioni divinizzanti.[7] Il duplice movimento (da Dio e verso Dio) si svolge dunque in conformità di ineludibili regole strutturali, cui è impossibile e ingiusto cercare di sottrarsi. Perché non si devono oltrepassare i limiti di ciò che ci è stato concesso moderatamente (μετρίως) di vedere.[8]

Anzi, nel negare la possibilità di comunicare direttamente, senza intermediari, con Dio, lo Pseudo-Dionigi arriva a sostenere (sulla base di Lc. 22,43; Is. 9,6 nella versione dei LXX e Ioh. 15,15) che lo stesso Gesù «dopo essere venuto immutabilmente fino al nostro livello, non si sottrae al buon ordine conveniente all’umanità da Lui stabilito e scelto, ma si sottomette docilmente alle disposizioni di Dio Padre trasmesse tramite gli angeli».[9] Allora, se tutto deve passare attraverso la mediazione gerarchica dei gradi superiori, non sarà più motivo di stupore il fatto che a tale regola sia assoggettata pure l’elargizione della χάρις.

Certo la grazia costituisce comunque un dono, libero e non necessitato,[10] però dei doni divini si deve ugualmente dire che sono proporzionali a ogni ordine sacro e più numerosi e più grandi nelle sostanze celesti.[11] Inoltre è sempre per via gerarchica che essi vengono dispensati: «Santi e re e signori e dei chiama poi la Scrittura gli ordini principali in ciascuna cosa, attraverso i quali i secondi partecipando dei doni di Dio moltiplicano secondo le loro proprie differenze la semplicità della distribuzione di quelli».[12]

Ma forse è anche più interessante l’osservazione che il donare è da parte di Dio continuo e uniforme, generosa elargizione a tutti in egual misura che mai diminuisce o viene meno.[13] Soltanto la diversa natura della loro partecipazione al Bene differenzia i vari gradi dell’essere: la benevolenza divina, al contrario, non è sottoposta ad alcun mutamento, permanendo identica, invariata, indiscriminata, cosmica.[14]

In questo schema la posizione dell’uomo è centrale, ma niente affatto privilegiata.[15] A essere privilegiati saranno semmai, lo abbiamo visto, gli ordini a noi superiori: «Infatti ciò che a loro è stato dato unitivamente e completamente ripiegato in sé (συνεπτυγμένως), dalle Scritture tramandate da Dio è stato a noi donato, nella misura in cui è da noi afferrabile, nella varietà e molteplicità dei simboli divisibili».[16] Si avverte nell’uomo la fatica della mediazione, fatica d’altronde inevitabile per poter giungere all’unione con Dio. La nostra gerarchia (ἡ καθ’ ἡμᾶς ἱεραρχία) è ancora in qualche modo simbolica e non può fare a meno di appoggiarsi alle cose sensibili nella sua ascesa verso quelle intelligibili, mentre «l’intelligenza del tutto immateriale di Dio e delle cose divine» contraddistingue la gerarchia celeste.[17]

Siamo vincolati alla materia, alla sua durezza ma anche a ciò che in essa risplende della luce divina.[18] La fatica che ci è richiesta per superarne la resistenza è intrinseca al dinamismo interno dell’essere, alla necessaria ἐπιστροφή di ogni ente, legame e connessione dell’intero universo. Non comporta però alcuna svalutazione dei limiti creaturali delle singole realtà. Se non ci si può acquietare in essi, la loro positività è comunque garantita e salvaguardata dalla stessa Divinità, la quale conserva e mantiene inconfuse le proprietà di ciascuna cosa.[19]

Forse il senso più vero di quella rigida struttura di livelli gerarchici che è il κόσμος dionisiano è proprio questo: soltanto la mediazione stabilisce e giustifica ciascun essere come valore. E d’altra parte è soltanto la positività dell’ente che fornisce un punto di appoggio nell’ascesa verso il principio.

mandragoreL’arcangelo Gabriele e Zaccaria. Ms. del XII sec. Fonte: Mandragore

 


NOTE

 

[1] Cfr. A. van den Daele, Indices pseudo-dionysiani, Louvain 1941, p. 146. Per il testo del Corpus si è utilizzata l’edizione critica curata da B.R. Suchla, G. Heil e A.M. Ritter (Pseudo-Dionysius Areopagita, Corpus Dionysiacum, 2 voll., Berlin-New York, De Gruyter 1990-1991). I titoli delle singole opere sono così abbreviati: CH = De coelesti hierarchia; EH = De ecclesiastica hierarchia; DN = De divinis nominibus; MT = De mystica theologia; Epp. = Epistulae. Nelle citazioni al titolo dell’opera viene fatto seguire il numero del capitolo, l’indicazione della colonna corrispondente nella Patrologia Graeca (PG III, Paris 1857, coll. 119-1120), la pagina e il rigo dell’edizione critica. Per le traduzioni dei brani si è tenuta presente, modificandola quando lo si è giudicato opportuno, la versione di P. Scazzoso contenuta in Dionigi Areopagita, Tutte le opere, Milano, Rusconi 1981.

[2] Ovviamente attenuare la personalità della grazia vuol dire anche modificare il senso della sua gratuità. Lo scandalo dell’elezione divina viene in questa prospettiva sotterraneamente disinnescato, perché dove la grazia inerisce a un ordine ontologico (dove quindi è logica, razionale, secondo un principio), la sua gratuità starà soltanto a significare l’assenza di costrizioni esteriori che pesino sulla Divinità.

[3] Lc. 1,11-17.

[4] CH IV (181B) 22,23-23,3.

[5] Mi limiterò a citare R. Roques, L’univers dionysien. Structure hiérarchique du monde selon le Pseudo-Denys, Paris, Aubier-Montaigne 1954, cap. 5; S. Lilla, «Introduzione allo studio dello Ps. Dionigi l’Areopagita», in Augustinianum 22 (1982), pp. 533-577 (in particolare le pp. 554-557).

[6] Cfr. CH IV (180D-181A) 22,11-22; EH V (504 C) 106,24-25.

[7] CH VIII (240D) 34,14-16: «universalmente, essendo stato decretato in modo degno di Dio dal divino principio dell’ordine, è attraverso i primi che i secondi partecipano delle illuminazioni tearchiche». Si veda anche CH XIII (301D) 46,1-5 e EH V (504CD) 106,24-107,6. E indubbiamente le «sante disposizioni delle sostanze celesti [gli angeli] partecipano della distribuzione tearchica più degli esseri solamente essenti, dei viventi irrazionali e degli esseri razionali alla nostra maniera» CH IV (180A) 21,1-3; DN IV (700D-701B) 149,9-20.

[8] EH II (400A) 74,19-75,1 Sul tema della “luce proporzionale” si veda CH XIII (301A) 44,20-24; EH V (501B) 104,20-23; DN IV (693B) 144,5; ecc.

[9]CH IV (181C) 23,10-14.

[10] Cfr. EH IV (484B) 102,8: δωρεὰ καὶ χάρις. Sulla grazia come dono divino si torna anche in EH III (445B) 11-22; VII (564A) 128,1.0

[11] EH VI (536C) 119,4-7 e DN V (817B) 182,11-14.

[12] DN XII (972B) 225,20-226,5.

[13] CH IX (260C-261A) 38,3-20. È da notare lo spirito (come chiamarlo se non ecumenico?) che anima in questo passo la descrizione dell’attività rivelativa divina. Cfr. anche EH II (397D) 74,11-13; DN XIII (977BC) 227,1-5.

[14] Persino i demoni, sebbene abbiano perso la capacità di vedere il bene che è in loro a causa del loro accecamento, conservano immutati i doni angelici. Cfr. DN IV (725C) 172,3-6. La lunga digressione de malorum subsistentia contenuta nel quarto capitolo di DN è dedicata a dimostrare l’inesistenza ontologica e l’irrealtà cosmica del male. Esso si risolve tutto in privazione e non-essere, ad ogni livello. Così il peccato consisterà, nella sfera degli enti dotati di autodeterminazione, in una sorta di mancata risposta alla chiamata divinizzante della Tearchia. Cfr. CH IX (260CD) 37,17-38,10; DN II (644BC) 129,12-130,4.

[15] Si veda in A.O. Lovejoy la descrizione di ciò che effettivamente significava per i medievali (che a loro volta l’avevano ereditata dal neoplatonismo) la visione geocentrica dell’universo: il centro lungi dall’essere la parte migliore è al contrario un luogo ben lontano dall’Empireo. Quel che vi è di più alto nel cosmo non è il centro ma il limite superiore (La grande catena dell’essere, tr. it. a c. di L. Formigari, Milano, Feltrinelli 1966, pp. 107-108).

[16] EH I (376B) 67,4-6.

[17] EH I (377A) 68,1-4; EH V (501AB) 104,15-105,21.

[18] CH II (144B) 15,1-5; I (121C) 8,14-21.

[19] Cfr. ad esempio DN XI (952C-953A) 220,7-21; VIII (896A) 204,8-11; (896B) 204,18-21 e (897C) 207,1-5. Si leggano al riguardo le belle pagine di H. U. von Balthasar, in Gloria, vol. II, Stili Ecclesiastici, pp. 125-187 della trad. it. (Milano, Jaca Book 1978).

Keywords: Dionysius the Areopagite, Pseudo-Dionysius, chàris, grace, hierarchy.

 

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