L’ateismo degli altri
Da Filosofia e teologia 29 (2014), 2. Il Dio sospeso, pp. 295-303
(con modifiche).
ABSTRACT
An atheist is such only for the God of someone else and everyone could be an atheist for others. No one is safe and the traditional notion of ‘fides implicita’ shows how within the religions themselves there is room for a kind of accepted and legitimate ‘atheism’. To build a dialogical space we have to suspend temporarily the theism-atheism dichotomy. A methodological and preliminary atheism, not closed to hope, is perhaps the only way by which we can establish a connection between faith and discursive reason.
Si è atei, sempre, per il Dio di qualcun altro e ciascuno può essere l’ateo di altri. Nessuno è al riparo e la nozione tradizionale di ‘fides implicita’ mostra come all’interno delle religioni stesse vi sia spazio per una sorta di ‘ateismo’ accettato e legittimo. Per costruire uno spazio dialogico occorre sospendere momentaneamente la dicotomia teismo-ateismo. Un ateismo metodologico e propedeutico, non chiuso alla speranza, è forse la sola via per la quale sia possibile stabilire un contatto tra fede e ragione discorsiva.
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TESTO
I ciechi che parlano dell’ateismo! Esiste forse già un teista? Come se ci fosse uno spirito umano padrone dell’idea di divinità! (F. Schlegel, Idee, 118).
[295] Si è atei, sempre, per il Dio di qualcun altro. Il termine esprime negazione o privazione, ma a qualificarlo e a dargli senso è ciò che viene negato, rifiutato, o dichiarato mancante. Solo il teismo dà significato all’ateismo: non Dio (la res che sarebbe negata) ma un’idea di Dio. L’ateismo non si rivolge a un oggetto, una cosa, un’entità. Nemmeno, in fondo, all’entità o cosa chiamata «Dio». Ha come riferimento le rappresentazioni di altri uomini, ritenute adeguate (o comunque sufficienti) ad esprimere Dio, il cui rifiuto possiamo quindi definire «ateo». Concetti, dottrine adeguate o sufficienti a definire l’oggetto designato, sia dal punto di vista di chi vi aderisce, sia specularmente da quello di chi vi si contrappone negandone l’esistenza. Idee, rappresentazioni considerate capaci di esprimere la «cosa» di cui si parla. Resta da chiedere se un linguaggio concetto appropriato riguardo al divino vi sia.
[296] È in riferimento alla nostra personale esperienza che proclamiamo «ateo» colui che non la riconosce. Costui non è semplicemente un non credente, è qualcuno mancante di qualcosa di cui io ho esperienza o che nega vi sia questo qualcosa. Chi ha un altro Dio, ovviamente, non è solo per questo un ateo, ma è ateismo rifiutare il carattere sacro e divino di quel che noi abbiamo accettato come tale. Ed è sempre stato così.
Gli epicurei, pur con i loro dèi negli intermundia, sono stati coerentemente definiti atei da greci e cristiani, antichi e moderni [1]. Analogamente il Deus di Spinoza non ha mai impedito di sospettare della sua filosofia. Non basta che qualcuno parli dell’esistenza di un Dio perché si possa escludere che sia ateo. L’ateismo è quoad nos.
Di ateismo furono accusati i primi cristiani, i quali reagirono con sdegno: assurdo trattare in tal modo proprio loro, i credenti nel vero Dio [2]. Però Giustino ammette che, in un certo senso, potevano dirsi «atei» rispetto agli dèi pagani [3]. I cristiani comunque non mancarono di ritorcere l’accusa contro i loro avversari. Già il Nuovo testamento definisce i gentili, prima della conversione, sine Deo in mundo (ἄθεοι ἐν τῷ κόσμῳ) [4]. Nel Martirio di Policarpo vediamo come l’epiteto venga fatto rimbalzare dagli uni agli altri: a Policarpo viene ingiunto di dire, in riferimento ai cristiani, «Basta con gli atei». Lui rivolgendosi verso la folla dei «pagani senza legge» (ἀνόμων ἐθνῶν) e indicandoli con la mano scandisce: «Basta con gli atei» (Αἶρε τοὺς ἀθέους) [5]. Sarebbe un errore accantonare questi episodi come mere strumentalizzazioni polemiche o frutto di ignoranza, anzi l’accusa contro i cristiani diviene più comune nel II secolo forse proprio per una migliore conoscenza del cristianesimo [6]. Tutto sommato Giustino ha ragione: negando qualsiasi valore alla religione tradizionale i cristiani sono, rispetto ad essa, «atei».
[297] Cornelio Fabro, sull’Enciclopedia Cattolica, dava dell’ateismo una descrizione assai comprensiva. Vi inseriva le civiltà e le religioni orientali, jainismo e buddhismo, allo stesso tempo negava vi fosse «distinzione tra ateismo e politeismo idolatrico» [7]. Sostanzialmente nella nozione «rientrano, dal punto di vista teologico e metafisico, anche tutte quelle filosofie e religioni, che si fanno di Dio un concetto contrastante con l’esigenza della sua Natura…». Campo assai vasto, come si vede. D’altronde «queste concezioni, con l’illusione di una accettazione della divinità, allontanano in un certo senso più dell’ateismo dalla conoscenza del vero Dio» [8]. Alla fine, anche il modernismo è stato autorevolmente etichettato come propedeutico all’ateismo [9]. Certo mette un po’ a disagio ampliare a tal punto l’uso del termine, ad ogni modo qualunque definizione si scelga dipenderà innanzitutto da quella che riteniamo sia la concezione adeguata di Dio e del divino. Più è determinata e finita, più saranno gli atei.
Sine ira et studio legioni di intellettuali, prudenti e consapevoli, hanno mostrato una sorprendente larghezza nell’elargire la qualifica di «ateo». Non va forse smascherato l’ateismo di Lutero, Melantone e Calvino? È quel che scrivono alcuni noti autori cattolici. [10] Di contro, tra i riformati vi è chi ritiene la Chiesa Cattolica causa di ateismo [11]. Per i gesuiti sono sospetti Giansenio, Cartesio e Pascal, mentre il frate cappuccino Valeriano Magni non risparmia giusto i seguaci di Ignazio di Loyola [12]. Un esponente della Chiesa Unitariana, la quale a sua volta ha costituito un facile bersaglio di accuse da parte delle altre confessioni cristiane, può invece [298] ritenere che la forma più pericolosa di ateismo non sia quella aperta e palese di chi si dichiara tale, quanto «l’infedeltà pratica che accetta ogni articolo del credo popolare» mentre nella vita quotidiana si rivela «senza onestà, amore o Dio nel mondo» [13]. Ma quale religione potrebbe allora garantire ai suoi aderenti di non essere «atei»? Non è facile per nessuno, a questo punto, riuscire ad ottenere una sicura immunità dall’accusa di ateismo [14]. Paradigmatico è il caso di Newman: nella sua teoria dello sviluppo del dogma si è potuto scorgere, senza che la cosa procurasse particolari difficoltà (e con scarso senso del ridicolo), una manifestazione dell’ateismo del suo tempo [15].
È forte la tentazione di considerare questi episodi unicamente quali curiosità storiche o esempi di uso errato e denigratorio del termine. Ci consentirebbe di accantonare i numerosissimi casi del genere, abbandonandoli a una teratologia storiografica per noi irrilevante. Tuttavia vi è in essi molto più, emerge una struttura di fondo che va oltre inimicizie umane e miopie dottrinali e finisce col toccare un aspetto centrale della questione: ciascuno può essere l’ateo di qualcun altro.
In una recente sintesi si legge che solo il negare il Dio di un «sofisticato monoteismo» comporta l’essere ateo. Assumiamo, senza tanti rovelli, che sia così. Sembrerebbe infatti che le divinità tribali e quelle delle religioni politeiste siano «di scarso o nessun interesse filosofico» ed è una fortuna, perché in tal modo evitiamo di considerare atea ogni manifestazione di incredulità nei loro confronti [16]. Meglio però restringere ulteriormente il [299] campo al Dio ebraico-cristiano, personale e provvidente. Con il vantaggio di poter continuare a classificare come forme di ateismo alcuni monoteismi per conto loro abbastanza sofisticati (si pensi a Spinoza o ai deisti). Negare che vi sia un ordine cosmico è ateo, ma identificare semplicemente Dio con quest’ordine potrebbe esserlo altrettanto.
La differenza tra ateismo e teismo risiede, sembra, nell’oggetto di una credenza. Ma cosa, esattamente, si crede (o non si crede)? L’aspetto cognitivo, il contenuto concettuale è davvero così essenziale nello stabilire la fede di una persona?
Il problema forse è più giuridico e casuistico. Prendiamo dunque come guida un’opera autorevole e dall’ampia eco in questo genere di letteratura: il commento alle decretali di Innocenzo IV, l’Apparatus in quinque libros decretalium [17].
Fidei mensura quaedam est… C’è una certa misura della fede, che è sufficiente all’uomo comune. Se ci domandiamo quanto davvero importi credere nelle dottrine fondamentali di una religione, possiamo talora ricevere risposte sorprendenti. Dopo anatemi, roghi, conflitti secolari non è da mettere in dubbio che il contenuto delle nostre credenze sia vitale per la salvezza. Non è affatto indifferente cosa si crede. Fino a una certa misura, almeno. Perché neppure dobbiamo pretendere troppo. Pochi fedeli saprebbero districarsi senza impacci nei lacci di teologie millenarie, ricchissime, estremamente sottili e complesse. La possibilità dell’errore è sempre in agguato, la salvezza diventerebbe una chimera. Una congiunzione, un _que, una sfumatura semantica, e saremmo perduti.
Tutto sommato, è stato risposto, può bastare una fede implicita. Sufficit credere in Dio e credere che egli retribuisca ogni bene. Ma allora i dogmi, le condanne dottrinali, Ario, Nestorio e le eresie sono forse irrilevanti? Assolutamente no, vi è un limite minimo su cui non si deve transigere e che invece di per sé sufficit, basta a tutti coloro che non sono chierici: credere verum esse quicquid credit ecclesia, credere vero qualunque cosa crede la Chiesa [18].
[300] A parlare in modo così trasparente è un’autorità cattolica, ma emerge qui una struttura, ora esplicita ora tendenziale, sottostante a molte tradizioni religiose differenti. Sì, sarebbe opportuno che i laici dotati di talento e ingegno si dedicassero all’approfondimento degli articoli di fede, ma se anche non lo fanno, non pare che pecchino (quamvis non videatur, quod peccant etiamsi eis non intendant). Le doti intellettuali, per se stesse, non comportano un obbligo di conoscenza. Opinioni gravemente erronee, quanto al contenuto dottrinario, possono esser credute senza danno alcuno per la nostra anima, purché si ignori che sono in contrasto con la dottrina della Chiesa e non le si difenda contro di essa [19]. L’unico ostacolo alla salvezza è il mancare del solo requisito fondamentale: credere in qualunque cosa creda la Chiesa.
Sarebbe fuorviante forzare queste parole per renderle rappresentative in generale della teologia e della dottrina cattolica. Già in quel testo alcune espressioni di cautela (etiam forte, ut dicunt quidam, ecc.) dovrebbero metterci sull’avviso, si aggiunga che in molti, da Bonaventura e Tommaso in poi, si sono preoccupati di delimitare con vincoli più stretti l’ambito della fides implicita [20]. Tuttavia, pur senza sottovalutare l’ampia influenza di un testo normativo come l’Apparatus innocenziano, è irrilevante per il nostro [301] discorso se esso esponga o meno la posizione della Chiesa. È a noi sufficiente che rappresenti una possibilità all’interno del cattolicesimo. Per Adolf von Harnack la dottrina della fides implicita non fa che dare espressione logica a una vecchia concezione cattolica [21]. Tommaso, da parte sua, non contesta che il bonum fidei consista sostanzialmente nell’obbedienza [22]. Così, dice, bisogna evitare di indagare troppo sulle convinzioni dei semplici fedeli, a meno che non li si sospetti di esser stati fuorviati dagli eretici. Anche in quest’ultimo caso, d’altronde, se le credenze erronee non sono difese con pertinacia, i fedeli non vanno ritenuti colpevoli [23]. In fondo, quel che si crede mediante un giudizio autonomamente formato è secondario rispetto all’obbedienza. Per quanto sul piano teorico Tommaso sia meno condiscendente verso la fides implicita, avvertendone le ambiguità, sul piano della prassi vi rimane poi vincolato. Ponendo al centro della vita religiosa l’adesione a un contenuto dottrinale ci si scontra inevitabilmente con il problema dell’impossibilità pratica di garantire la salvezza ai rudes, a coloro che non hanno un’adeguata preparazione teologica.
Ad ogni modo, indipendentemente da qualunque posizione sia stata successivamente presa sul tema della fides implicita, una cosa soltanto conta qui: come minimo, nella forma esposta da Innocenzo IV, non è dottrina incompatibile con una parte della tradizione cattolica. L’aspetto essenziale della religione per il credente ordinario sembrerebbe ridursi alla semplice obbedienza nei confronti dell’autorità. Sebbene ingenerosa o addirittura caricaturale come caratterizzazione dell’intero cattolicesimo, si tratta di una tentazione non priva di riscontri nella storia (e nell’attualità).
[302] Calvino attaccherà su questo punto con forza, senza tener conto della complessità del tema o delle sfumature all’interno della teologia scolastica. Per lui «la finzione di una fede implicita non solo seppellisce, ma distrugge totalmente la vera fede». A cosa si ridurrebbe il credere, forse a non intendere nulla e a sottomettersi obbedientemente alla Chiesa? La replica è netta: non in ignoratione, ma in cognitione risiede la nostra fede. Altrimenti si potrebbe non credere realmente in nulla di preciso, purché si apponga la condizione «credo se così fa la Chiesa». Ma è assurdo immaginare di poter avere la verità nell’errore, la luce nelle tenebre, la scienza nell’ignoranza [24].
Pensare che basti respingere con foga una dottrina perché si risolva da sé il problema per il quale la dottrina nasce è certo illusorio [*], tuttavia la reazione di Calvino è comprensibile: una credenza in realtà priva di oggetto determinato, fondata unicamente sulla sottomissione a un’autorità visibile, quale forma di teismo sarebbe esattamente? Non credere in niente se non nell’autorità: non siamo qui pericolosamente vicini a una forma di indifferentismo religioso o addirittura di ateismo?
Se pare ci si stia spingendo troppo oltre, si pensi al fenomeno, non nuovo, dei cosiddetti «atei devoti»: in un certo senso essi rappresentano il punto di contatto fra due ateismi, uno esterno e uno interno al cristianesimo [25]. È abbastanza indicativo che la loro comparsa provochi tanto l’aperto fastidio di una parte dei fedeli, quanto il sincero entusiasmo di altri. Nella sua unilateralità, alla fine, l’estremizzazione operata da Calvino mette in risalto una tendenza realmente esistente. La condiscendenza verso gli «atei devoti», cartina al tornasole di una sorta di ateismo implicito, sorprende poco se il carattere essenziale della fede viene ricondotto fra gli stessi fedeli al credere verum esse quicquid credit ecclesia [26]. Ed è un rischio al quale non [303] sfugge né il cattolicesimo né il calvinismo, come qualsiasi religione fondata su una dottrina salvifica che richieda un’adesione intellettuale.
Non basta un Dio, un mondo, un senso per avere speranza. Non dobbiamo fare della dottrina un idolo, non possiamo imprigionare il divino nel recinto delle nostre rappresentazioni [27]. La rappresentazione, il logos, la dottrina hanno un valore positivo, sarebbe sciocco rifiutarli e vano credere di poterne fare a meno. Ma costituiscono solo un punto d’appoggio, una base di partenza per il salto verso l’ἀνυπόθετον [28].
La costruzione di uno spazio dialogico richiede di operare una sospensione delle divisioni dottrinali, degli aut aut preliminari e fondativi, tornando al «Dio ignoto» che tutti andiamo cercando a tentoni benché egli non sia lontano da noi [29]. Un ateismo metodologico e propedeutico, non chiuso alla speranza, è forse la sola via per la quale sia possibile stabilire un contatto tra fede e ragione discorsiva. La lezione della teologia negativa, di Bonhoeffer e ora di Kearney [30] è antica ma va continuamente riscoperta, perché ciò che è al di là dell’essere e della parola è anche «di ogni silenzio più ineffabile» [31] e non consente all’uomo di acquietarsi né in una formula dottrinale sclerotizzata né in silenzio sterile e vuoto.
L’ateismo, il nostro e l’altrui (quali che siano le credenze di ciascuno), offre un dono alle religioni. Ci ricorda di non rinchiuderle entro uno steccato dottrinale e, col contestare tanto l’adeguatezza delle definizioni quanto la loro capacità di catturare una res, costituisce un invito a continuare sempre a mettere alla prova le nostre idee, affrontando la sfida di un’alterità irriducibile e necessaria. Le idee sono importanti, sarebbe un errore ritenerle indifferenti, ma c’è una cosa ancora più fondamentale, dalla quale le idee stesse traggono vita, ed è la relazione fra le persone.
NOTE
[1] La filosofia epicurea è generalmente classificata tra le forme di ateismo. Così fa anche U. Perone alla voce Ateismo, nell’Enciclopedia filosofica del Centro studi filosofici di Gallarate, Bompiani, Milano 2006.
[2] Qualche esempio in Cassio Dione LXVII, 14; Giustino, Apologia I, 6 e II, 3; Atenagora, Supplica 3-4 e 13. Cfr. A. von Harnack, Der Vorwurf des Atheismus in den drei ersten Jahrhunderten, in Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur, a c. di O. von Gebhardt e A. von Harnack, Hinrichs, Lepzig, 1905 (TU XXVIII, 4); P. F. Beatrice, “L’accusation d’athéisme contre les Chrétiens”, in Hellénisme et Christianisme, a cura di M. Narcy ed É. Rebillard, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq, 2004, pp. 133-151. Sull’ateismo antico in generale cfr. J. N. Bremmer, “Atheism in Antiquity”, in The Cambridge Companion to Atheism, a cura di M. Martin, Cambridge UP, Cambridge, 2007, pp. 11- 26.
[3] Giustino, Apologia I, 6 : «ammettiamo certamente di essere atei rispetto a queste sedicenti divinità» (ὁμολογοῦμεν τῶν τοιούτον νομιζομένων θεῶν ἄθεοι εἶναι).
[4] Ef. 2, 12.
[5] Martirio di Policarpo IX, 2.
[6] Beatrice, “L’accusation…”, cit., p. 136: «L’accusation d’athéisme dérive fort probablement d’une connaissance, devenue avec le temps plus proche et précise du phénomène chrétien et de ses réelles implications strictement anti-polythéistes, de la part des autorités et du peuple».
[7] C. Fabro, s.v. “Ateismo”, in Enciclopedia cattolica, Ente per l’Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1949, col. 268.
[8] Fabro, s.v. “Ateismo”, cit., col. 266 (corsivo mio). Del resto è già ateismo il «demolire i fondamenti delle prove dell’esistenza di Dio, della necessità della religione e del culto e di quanto necessariamente vi si connette (Provvidenza, immortalità dell’anima, sanzione morale…).» Nella sua Introduzione all’ateismo moderno del 1964 torna ancora sull’argomento. Per evitare di ricadere nell’ateismo, scrive, occorre che Dio sia riconosciuto come l’essere supremo, unico e sommo, puro spirito, trascendente e «persona supremamente libera» (in C. Fabro, Opere complete 21, Edivi, Segni, 2013, pp. 52-53). Agnosticismo, politeismo, naturalismo, vitalismo, panpsichismo, monismo, panteismo, razionalismo, deismo, idealismo e immanentismo non soddisfano tali requisiti e sono da considerarsi dunque forme di ateismo.
[9] Fabro, s.v. “Ateismo”, cit., col. 277, che a sua volta si rifà a Pio X, Enc. Pascendi: «Ma basti sin qui per conoscere per quante vie la dottrina del modernismo conduca all’ateismo e alla distruzione di ogni religione. L’errore dei protestanti dié il primo passo in questo sentiero; il secondo è del modernismo: a breve distanza dovrà seguire l’ateismo.»
[10] A. Possevino S. J., Bibliotheca selecta de ratione studiorum VIII, apud Altobellium Salicatium, Venetiis, 1603, p. 382 (Tractatio de atheismis Lutheri, Melanchthonis, Calvini…); C. de Sainctes, Déclaration d’aucuns athéismes de la doctrine de Calvin et Bèze, Fremy, Paris, 1568.
[11] Un esempio in J. La Placete, De insanabili romanae ecclesiae scepticismo, Gallet, Amstelodami, 1696, p. V. Si veda soprattutto Giovanni Calvino, Institutio religionis christianae IV, 7, 27 (Opera I, a c. di G. Baum, E. Cunitz, E. Reuss, Schwetschke, Brunsvigae, 1863, p. 625): Sed quid tres aut quatuor pontifices enumero? Quasi vero dubium sit qualem religionis speciem professi sint jampridem Pontifices, cum toto cardinalium collegio, et hodie profiteuntur. Primum enim arcanae illius theologiae, quae inter eos regnat, caput est, nullum esse Deum («Ma che enumero a fare tre o quattro pontefici? Come se ci fosse dubbio alcuno su quale specie di religione i pontefici, con tutto il collegio dei cardinali, hanno da lungo tempo professato e professano ancora oggi. Il primo articolo, infatti, di quell’arcana teologia che tra loro domina incontrastata, è che non vi è nessun Dio»).
[12] J. Hardouin S.J., Athei detecti, in Opera varia, Du Sauzet, Amstelodami, 1733. V. Magni, Christiana et catholica defensio adversus Societatem Jesu haeresi, vel atheismo infectam, [S.l.], 1661.
[13] C. W. Wendte, “Editor’s Preface”, in T. Parker, Theism, Atheism and the Popular Theology, American Unitarian Association, Boston, 1907, p. IX: «the most dangerous form of atheism is not that which frankly avows itself such, and yet lives a pure, self-restrained, and kindly life, but the practical infidelity which accepts all the articles of the popular creed while in its daily conduct it discloses that it is without honesty, love, or God in the world.»
[14] Non sfuggono all’accusa Aristotele, gli scotisti, Campanella (a cui non servirà l’aver scritto l’Atheismus triumphatus), né i Quaccheri: cfr. J. F. Buddeus, Theses theologicae de atheismo et superstitione, Vonk van Linden, Trajectum ad Rhenum, 1737; A. C. Roth, Atheistica Thomasiana, Lankisius, Lipsiae, 1698, p. 29.
[15J. Buchanan, Modern atheism, under its forms of pantheism, materialism, secularism, development, and natural laws, Gould & Lincoln, Boston, 1857. Su Newman si vedano le pp. 116-126 (a esser preso di mira è l’Essay on the Development of Christian Doctrine, Toovey, London, 1845). Per Buchanan ammettere una progressione nello sviluppo della dottrina rischia, sia pur indirettamente, di compromettere il carattere rivelato e trascendente del cristianesimo. Analogamente ad altre forme di evoluzionismo, una tale concezione spingerebbe verso un naturalismo di fatto.
[16] J. J. C. Smart, “Atheism and Agnosticism”, in The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Spring 2013 Edition), a c. di E. N. Zalta: «’Atheism’ means the negation of theism, the denial of the existence of God. I shall here assume that the God in question is that of a sophisticated monotheism. The tribal gods of the early inhabitants of Palestine are of little or no philosophical interest. […] Similarly the Greek and Roman gods were more like mythical heroes and heroines than like the omnipotent, omniscient and good God postulated in mediaeval and modern philosophy.»
[17] Innocenzo IV, Commentaria… super libros quinque Decretalium, Feierabendt, Francofurti ad Moenum, 1570.
[18] Innocenzo IV, Commentaria, cit., I, tit. 1, c. 1: quaedam est fidei mensura ad quam quilibet tenetur et quae sufficit simplicibus et etiam forte omnibus laicis, scilicet, quia oportet quemlibet adultum accedentem ad fidem credere quia Deus est et quod est remunerator omnium bonorum. Item oportet [omnes] alios articulos fidei credere implicite, idest credere verum esse quicquid credit ecclesia catholica («vi è una certa misura della fede alla quale si è tenuti e che è sufficiente alla gente comune e forse anche a tutti i laici: ciascun adulto che si accosti alla fede deve credere che Dio è e che retribuisce ogni bene. Poi deve credere a tutti gli altri articoli di fede implicitamente, cioè deve credere vero qualunque cosa crede la Chiesa Cattolica»).
[19] Ibid.: Item videtur, quod etiam laici quibus Deus dat talentum subtilis ingenii, melius faciunt, si suum ingenium impendant in cognitione praedictorum, quamvis non videatur, quod peccant etiamsi eis non intendant. […] in tantum autem valet implicita fides ut dicunt quidam, quod si aliquis eam habet, scilicet quod credit quicquid ecclesia credit, sed falso opinatur ratione naturali motus, quod pater maior vel prior sit filio, vel quod tres personae sunt tres res a se invicem distinctae, quod non est haereticus, nec peccat, dummodo hunc errorem suum non defendat, et hoc ipsum credit, quia credit ecclesiam sic credere, et suam opinionem fidei ecclesiae supponit, quia licet male opinetur, tamen non est fide sua, imo fides sua fides est ecclesiae («Sembra poi che anche i laici ai quali Dio abbia donato un ingegno sottile farebbero bene a impegnarlo nella conoscenza delle cose divine, sebbene non pare che pecchino se anche non si rivolgano ad esse. […] a tal punto vale la fede implicita, come dicono certuni, che se uno la possiede, ovvero crede qualunque cosa crede la Chiesa e però, mosso dalla ragione naturale, falsamente ritiene che il Padre sia maggiore o primo rispetto al Figlio, o che le tre persone sono tre realtà distinte, non è eretico né pecca, almeno fino a quando non difende il suo errore e vi crede perché crede che così faccia la Chiesa e scambia la sua opinione con la fede della Chiesa. La ragione di ciò è che, sebbene abbia un’opinione sbagliata, tuttavia non è questa la sua fede, ma la sua fede è la fede della Chiesa»).
[20] Per Bonaventura da Bagnoregio (In Sent. III, d. 25, a. 1, q. 3) la sola fides implicita non è sufficiente: «credere omnes implicite est fidei diminutae». Condizione minima per la salvezza è credere qualcosa implicitamente e qualcosa esplicitamente («quosdam implicite, quosdam explicite»). Tommaso d’Aquino ritiene necessaria la fede nei prima credibilia, ovvero negli articuli fidei (ST II-II, q. 2, a. 5). Critico sarà anche J. H. Newman, il quale affaccia il timore che limitarsi a richiedere una fides implicita «in the educated classes will terminate in indifference, and in the poorer in superstition» (On consulting the faithful in matters of doctrine, ed. by J. Coulson, Sheed & Ward, Kansas City, 1961, p. 106). In tempi più recenti il concetto di fides implicita ha assunto un significato ben diverso nel contesto della teologia delle religioni, soprattutto grazie a K. Rahner, ma la cosa esula dal nostro tema.
[21] A. von Harnack, Lehrbuch der Dogmengeschichte III, Mohr, Freiburg i. Br., 1897, p. 453. L’osservazione non è priva di una punta polemica.
[22] Tommaso d’Aquino, ST II-II, q. 2, a. 5, arg. 3: bonum fidei in quadam obedientia consistit.
[23] Tommaso d’Aquino, ST II-II, q. 2, a. 6, ad 2: simplices non sunt examinandi de subtilitatibus fidei nisi quando habetur suspicio quod sint ab haereticis depravati, qui in his quae ad subtilitatem fidei pertinent solent fidem simplicium depravare. Si tamen inveniuntur non pertinaciter perversae doctrinae adhaerere, si in talibus ex simplicitate deficiant, non eis imputatur («i semplici fedeli non devono essere esaminati sulle sottigliezze della fede, se non quando ci sia il sospetto che siano stati pervertiti dagli eretici, i quali sono soliti pervertire la fede della gente semplice proprio in queste sottigliezze. Tuttavia ciò non sia imputato loro a colpa, se si riscontra che i semplici fedeli non aderiscono a una dottrina perversa con ostinazione e che sono caduti in errore per ingenuità)». Che l’eresia consista essenzialmente nel discostarsi consapevolmente dal magistero ecclesiastico rimarrà un classico leitmotiv della teologia cattolica, mentre il semplice errore materiale viene considerato del tutto irrilevante: de ratione haereseos est recessus a regula ecclesiastici magisterii, qui in casu nullus est, cum sit simplex error facti circa id quod regula dictat (L. Billot, Tractatus de ecclesia Christi I, Giachetti, Prato, 1909, p. 293). Sembra potersene concludere che a esser dannosa sia non tanto l’idea creduta in sé, ma la ribellione al dettato della Chiesa. Billot sarà successivamente un convinto sostenitore dell’Action française.
[24] Calvino, Institutio religionis christianae, cit., III, 2, 2-3, pp. 473-474): Figmentum autem de fide implicita, veram fidem non modo sepelit, sed penitus destruit. Hoccine credere est, nihil intelligere, modo sensum tuum obedienter ecclesiae submittas? Non in ignoratione, sed in cognitione sita est fides […]. Fides enim in Dei et Christi cognitione, non in ecclesiae reverentia iacet. […] Quae inconsiderata facilitas, quum certissimum sit in ruinam praecipitium, ab iis tamen excusatur, quia definite nihil credat, sed apposita conditione, si talis ecclesiae sit fides. Ita in errore veritatem, in caecitate lucem, in ignorantia rectam scientiam teneri fingunt («Queste finzioni riguardo a una fede implicita non solo seppelliscono, ma distruggono totalmente la fede autentica. Sarebbe questo il credere, non intendere nulla e solo sottomettersi obbedientemente alla Chiesa? Non nell’ignoranza, ma nella conoscenza è riposta la fede […] La fede consiste nella conoscenza di Dio e di Cristo, non nella reverenza per la Chiesa. […] Questa superficialità sconsiderata, quantunque sia certissimo precipizio verso la rovina, da costoro tuttavia è scusata, in quanto non crede nulla in modo determinato, ma appone la condizione “se tale è la fede della Chiesa”. Così immaginano sia tenuta la verità nell’errore, la luce nell’oscurità, la retta scienza nell’ignoranza»).
[*] In effetti lo stesso Calvino si ritroverà a dover successivamente giustificare una qualche forma di fides implicita. Si veda David Anders, John Calvin on Implicit Faith (2011)
[25] Scrivendo a proposito di Charles Maurras si è detto: «Non chrétien, catholique sociologique d’institution» (P. Chaunu, Charles Maurras et les catholiques français, in «Histoire, économie et société», XIV (1995), p. 143.
[26] Del resto, scriveva A. Tanquerey al volgere del XIX secolo, dopo che sia stata riconosciuta l’autorità storica e sociale, per così dire «umana», della Chiesa, facilmente i simplices o rudes pervengono all’ammissione della sua autorità divina e infallibile: Admissa auctoritate ut ita dicam humana Ecclesiae, facile ad ejus divinam et infallibilem auctoritatem devenient (Synopsis theologiae dogmaticae fundamentalis I, Desclée, Tornaci, 1899, p. 58).
[27] Di un cristianesimo senza fede, ridotto a morale e dottrina, ha parlato recentemente Papa Francesco: «Quando un cristiano diventa discepolo dell’ideologia, ha perso la fede e non è più discepolo di Gesù» (Discepoli di Cristo non dell’ideologia, «L’Osservatore Romano», 18/10/2013).
[28] Platone, Resp. VI, 511b: «punti di appoggio e di slancio (ἐπιβάσεις τε καὶ ὁρμάς) per giungere sino a ciò che è al di là di ogni presupposto, al principio del tutto».
[29] At. 17, 23-27. Il discorso di Paolo all’Areopago illustra bene come si costruisca (e si perda) un piano di confronto comune.
[30] R. Kearney, Ana-teismo. Tornare a Dio dopo Dio, tr. it. a c. di . M. Zurlo, Fazi, Roma, 2012.
[31] Proclo, Theologia platonica II, 11: πάσης σιγῆς ἀρρητότερον.