dionysiana

filosofia, religioni e laicità

Categoria: medioevo

Thearchia

Deus causa omniumDionigi spiega a Timoteo che Dio è causa
di tutte le cose causate.
Angers, BM, ms. 142, f. 206rv (da Initiale).

 

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NOTE DIONISIANE II
ΘΕΑΡΧΙΑ

 

Nella sua agile e competente traduzione di alcuni scritti pseudo-dionisiani Salvatore Lilla traduce le parole θεαρχία e θεαρχικός, rendendole con “divinità” e “divino”. [1] In questo modo, però, si viene a perdere l’esatta valenza semantica dei due termini. In effetti, quando questi vengono utilizzati, il divino di cui si parla è sempre inteso nella sua qualità di principio, è il divino specificamente considerato come implicato nella processione o nella deificazione delle sostanze che da lui dipendono. Certo non è facile trovare un corrispondente italiano adeguato, e d’altronde “Tearchia” non è né elegante né di immediata comprensibilità. Ma probabilmente non vi sono soluzioni migliori del pedestre ricalco dell’espressione greca. Concessioni eccessive alle esigenze dello stile o della divulgazione possono qui compromettere la corretta comprensione di alcuni luoghi. Mi limiterò a due esempi: nel settimo capitolo della Gerarchia celeste [2] viene detto che la Tearchia, cioè la divinità in quanto principio, può essere conosciuta nella misura in cui essa è conforme a ragione. Il che non significa affatto che sia conoscibile “la divinità”, sic et simpliciter: non si sta dicendo nulla qui di una qualche misteriosa essenza divina, si fa riferimento piuttosto a ciò che della divinità è riscontrabile nelle creature, a ciò che della causa si può conoscere a partire dai suoi effetti. [3] Nella II Epistola il testo è ancora più esplicito: “Colui che è al di sopra di tutto” è detto superiore anche alla stessa Tearchia (ὁ πάντων ἐπέκεινα… ὑπὲρ θεαρχίαν ἐστὶ). [4] O, come viene chiarito, alla divinità intesa come principio della deificazione e del bene.


[1] Ps. Dionigi l’Areopagita, Gerarchia Celeste, Teologia mistica, Lettere, tr., intr; e note a c. di S. Lilla, Roma, Città Nuova, 1986
[2] CH VII (212C) 32,4 sgg. (Lilla, p. 53).
[3] La Tearchia non va nemmeno intesa semplicemente, al modo del De Gandillac (che peraltro ne conferma l’intraducibilità) come l’imperscrutable Déité situé e au-delà de toute dé nomination et de toute intellection (SCh 58bis, p. 66). In effetti essa è, in quanto Tearchia, conoscibile ed esprimibile (almeno come principio).
[4] Ep. II (1068A-1069A) 158,1 (Lilla, p. 119).

Keywords: Dionysius the Areopagite, Pseudo-Dionysius, Neoplatonism.

 

Una grazia universale e senza fine

La nota che segue è stata pubblicata la prima volta in un volume collettivo dell’Officina di Studi Medievali (Pagine medievali tra logos e dialettica, Palermo, 1990, pp. 79-85). A quel tempo disponevo solo della Patrologia Latina e degli Indices pseudo-dionysiani curati da A. van den Daele nel 1941. Ho deciso comunque di riproporre qui questo breve scritto con correzioni minime e senza aggiunte o aggiornamenti, a parte i riferimenti al testo dell’edizione critica del Corpus Dionysiacum.

Dionigi AreopagitaSan Dionigi (1301/1350 circa). Squinzano, Museo dell’Abbazia
di Santa Maria delle Cerrate. Fonte: Bildindex.

NOTE DIONISIANE I
CHARIS. LA NOZIONE DI GRAZIA IN DIONIGI L’AREOPAGITA

 

Lo Pseudo-Dionigi utilizza poche volte il termine χάρις ed esclusivamente nei due trattati sulle gerarchie.[1] Di χάρις non si fa menzione nell’opera sui Nomi divini e nemmeno nella Teologia mistica o nelle Lettere. Ma benché il termine appaia poco centrale nel vocabolario dionisiano, tuttavia è significativo il modo in cui viene utilizzato. In EH VI (533A) 116,19-20 troviamo che «la legislazione sacra diede loro [ai monaci] una grazia perfettiva» (τελεστικὴν αὐτοῖς ἐδωρήσατο χάριν ἡ ἱερὰ θεσμοθεσία). Ora, la grazia di cui si sta parlando viene qui concessa a uno specifico ordine gerarchico e non a un individuo. Non è il dono arbitrario di una volontà trascendente, rientra piuttosto in un ordinamento legale in virtù del quale è dispensata nella misura adeguata a ciascun grado della gerarchia. Quest’idea ricompare ancora in altri luoghi: ad esempio in CH III (168A) 19,21 laddove si legge che opera in forza di una grazia data da Dio «ciascun ordine della disposizione gerarchica» (ἑκάστη τῆς ἱεραρχικῆς διακοσμήσεως τάξις). Si potrebbe poi ricordare EH III (445B) 94,11-13 in cui è scritto che ogni disposizione sacerdotale (ἡ πᾶσα τῶν ἱερῶν διακόσμησις) apprezza e celebra le grazie delle opere divine (τὰς τῶν θευργιῶν… χάριτας) secondo la propria capacità (ἀναλόγως).

Complessivamente l’uso della parola all’interno del Corpus sembra definire uno spazio semantico in cui il carattere personale, individuale, del favore divino non è messo affatto in evidenza.[2] Soltanto in CH IV (181B) 23,2 si fa cenno di una χάρις personale e gratuita, ma si tratta giusto di esempio desunto dalla Scrittura: l’Arcangelo Gabriele rivela a Zaccaria che suo figlio, Giovanni Battista, «nato per grazia divina (χάριτι θείᾳ) contro ogni speranza», avrebbe annunciato «l’umana teurgia di Gesù», ovvero l’operazione divino-umana dell’Incarnazione.[3] Un esempio, per di più, inserito a esplicita giustificazione della necessità di intermediari gerarchici anche a proposito della grazia: il passo evangelico viene introdotto per spiegare che «al divino mistero dell’amore di Gesù per gli uomini furono per primi iniziati gli angeli, poi tramite loro la grazia di una simile conoscenza (ἡ τῆς γνώσεως χάρις) giunse a noi».[4]

mandragore L’arcangelo Gabriele e Zaccaria. Ms. greco dell’XI sec.
Fonte: Mandragore

Del resto il ruolo attribuito da Dionigi alla mediazione angelica è ben conosciuto e ampiamente documentato.[5] I secondi, gli inferiori, sono elevati mediante i primi o superiori: tutto l’ordinamento gerarchico dell’universo è regolato da questa legge fondamentale, di istituzione divina.[6] Ma a dipendere dagli angeli non è solo la nostra elevazione a Dio: anche il presupposto e il fondamento di questa, la partecipazione stessa degli uomini alla luce divina, è legata all’intermediazione angelica. La conversione gerarchica degli esseri ha per base la trasmissione, altrettanto gerarchica, delle illuminazioni divinizzanti.[7] Il duplice movimento (da Dio e verso Dio) si svolge dunque in conformità di ineludibili regole strutturali, cui è impossibile e ingiusto cercare di sottrarsi. Perché non si devono oltrepassare i limiti di ciò che ci è stato concesso moderatamente (μετρίως) di vedere.[8]

Anzi, nel negare la possibilità di comunicare direttamente, senza intermediari, con Dio, lo Pseudo-Dionigi arriva a sostenere (sulla base di Lc. 22,43; Is. 9,6 nella versione dei LXX e Ioh. 15,15) che lo stesso Gesù «dopo essere venuto immutabilmente fino al nostro livello, non si sottrae al buon ordine conveniente all’umanità da Lui stabilito e scelto, ma si sottomette docilmente alle disposizioni di Dio Padre trasmesse tramite gli angeli».[9] Allora, se tutto deve passare attraverso la mediazione gerarchica dei gradi superiori, non sarà più motivo di stupore il fatto che a tale regola sia assoggettata pure l’elargizione della χάρις.

Certo la grazia costituisce comunque un dono, libero e non necessitato,[10] però dei doni divini si deve ugualmente dire che sono proporzionali a ogni ordine sacro e più numerosi e più grandi nelle sostanze celesti.[11] Inoltre è sempre per via gerarchica che essi vengono dispensati: «Santi e re e signori e dei chiama poi la Scrittura gli ordini principali in ciascuna cosa, attraverso i quali i secondi partecipando dei doni di Dio moltiplicano secondo le loro proprie differenze la semplicità della distribuzione di quelli».[12]

Ma forse è anche più interessante l’osservazione che il donare è da parte di Dio continuo e uniforme, generosa elargizione a tutti in egual misura che mai diminuisce o viene meno.[13] Soltanto la diversa natura della loro partecipazione al Bene differenzia i vari gradi dell’essere: la benevolenza divina, al contrario, non è sottoposta ad alcun mutamento, permanendo identica, invariata, indiscriminata, cosmica.[14]

In questo schema la posizione dell’uomo è centrale, ma niente affatto privilegiata.[15] A essere privilegiati saranno semmai, lo abbiamo visto, gli ordini a noi superiori: «Infatti ciò che a loro è stato dato unitivamente e completamente ripiegato in sé (συνεπτυγμένως), dalle Scritture tramandate da Dio è stato a noi donato, nella misura in cui è da noi afferrabile, nella varietà e molteplicità dei simboli divisibili».[16] Si avverte nell’uomo la fatica della mediazione, fatica d’altronde inevitabile per poter giungere all’unione con Dio. La nostra gerarchia (ἡ καθ’ ἡμᾶς ἱεραρχία) è ancora in qualche modo simbolica e non può fare a meno di appoggiarsi alle cose sensibili nella sua ascesa verso quelle intelligibili, mentre «l’intelligenza del tutto immateriale di Dio e delle cose divine» contraddistingue la gerarchia celeste.[17]

Siamo vincolati alla materia, alla sua durezza ma anche a ciò che in essa risplende della luce divina.[18] La fatica che ci è richiesta per superarne la resistenza è intrinseca al dinamismo interno dell’essere, alla necessaria ἐπιστροφή di ogni ente, legame e connessione dell’intero universo. Non comporta però alcuna svalutazione dei limiti creaturali delle singole realtà. Se non ci si può acquietare in essi, la loro positività è comunque garantita e salvaguardata dalla stessa Divinità, la quale conserva e mantiene inconfuse le proprietà di ciascuna cosa.[19]

Forse il senso più vero di quella rigida struttura di livelli gerarchici che è il κόσμος dionisiano è proprio questo: soltanto la mediazione stabilisce e giustifica ciascun essere come valore. E d’altra parte è soltanto la positività dell’ente che fornisce un punto di appoggio nell’ascesa verso il principio.

mandragoreL’arcangelo Gabriele e Zaccaria. Ms. del XII sec. Fonte: Mandragore

 


NOTE

 

[1] Cfr. A. van den Daele, Indices pseudo-dionysiani, Louvain 1941, p. 146. Per il testo del Corpus si è utilizzata l’edizione critica curata da B.R. Suchla, G. Heil e A.M. Ritter (Pseudo-Dionysius Areopagita, Corpus Dionysiacum, 2 voll., Berlin-New York, De Gruyter 1990-1991). I titoli delle singole opere sono così abbreviati: CH = De coelesti hierarchia; EH = De ecclesiastica hierarchia; DN = De divinis nominibus; MT = De mystica theologia; Epp. = Epistulae. Nelle citazioni al titolo dell’opera viene fatto seguire il numero del capitolo, l’indicazione della colonna corrispondente nella Patrologia Graeca (PG III, Paris 1857, coll. 119-1120), la pagina e il rigo dell’edizione critica. Per le traduzioni dei brani si è tenuta presente, modificandola quando lo si è giudicato opportuno, la versione di P. Scazzoso contenuta in Dionigi Areopagita, Tutte le opere, Milano, Rusconi 1981.

[2] Ovviamente attenuare la personalità della grazia vuol dire anche modificare il senso della sua gratuità. Lo scandalo dell’elezione divina viene in questa prospettiva sotterraneamente disinnescato, perché dove la grazia inerisce a un ordine ontologico (dove quindi è logica, razionale, secondo un principio), la sua gratuità starà soltanto a significare l’assenza di costrizioni esteriori che pesino sulla Divinità.

[3] Lc. 1,11-17.

[4] CH IV (181B) 22,23-23,3.

[5] Mi limiterò a citare R. Roques, L’univers dionysien. Structure hiérarchique du monde selon le Pseudo-Denys, Paris, Aubier-Montaigne 1954, cap. 5; S. Lilla, «Introduzione allo studio dello Ps. Dionigi l’Areopagita», in Augustinianum 22 (1982), pp. 533-577 (in particolare le pp. 554-557).

[6] Cfr. CH IV (180D-181A) 22,11-22; EH V (504 C) 106,24-25.

[7] CH VIII (240D) 34,14-16: «universalmente, essendo stato decretato in modo degno di Dio dal divino principio dell’ordine, è attraverso i primi che i secondi partecipano delle illuminazioni tearchiche». Si veda anche CH XIII (301D) 46,1-5 e EH V (504CD) 106,24-107,6. E indubbiamente le «sante disposizioni delle sostanze celesti [gli angeli] partecipano della distribuzione tearchica più degli esseri solamente essenti, dei viventi irrazionali e degli esseri razionali alla nostra maniera» CH IV (180A) 21,1-3; DN IV (700D-701B) 149,9-20.

[8] EH II (400A) 74,19-75,1 Sul tema della “luce proporzionale” si veda CH XIII (301A) 44,20-24; EH V (501B) 104,20-23; DN IV (693B) 144,5; ecc.

[9]CH IV (181C) 23,10-14.

[10] Cfr. EH IV (484B) 102,8: δωρεὰ καὶ χάρις. Sulla grazia come dono divino si torna anche in EH III (445B) 11-22; VII (564A) 128,1.0

[11] EH VI (536C) 119,4-7 e DN V (817B) 182,11-14.

[12] DN XII (972B) 225,20-226,5.

[13] CH IX (260C-261A) 38,3-20. È da notare lo spirito (come chiamarlo se non ecumenico?) che anima in questo passo la descrizione dell’attività rivelativa divina. Cfr. anche EH II (397D) 74,11-13; DN XIII (977BC) 227,1-5.

[14] Persino i demoni, sebbene abbiano perso la capacità di vedere il bene che è in loro a causa del loro accecamento, conservano immutati i doni angelici. Cfr. DN IV (725C) 172,3-6. La lunga digressione de malorum subsistentia contenuta nel quarto capitolo di DN è dedicata a dimostrare l’inesistenza ontologica e l’irrealtà cosmica del male. Esso si risolve tutto in privazione e non-essere, ad ogni livello. Così il peccato consisterà, nella sfera degli enti dotati di autodeterminazione, in una sorta di mancata risposta alla chiamata divinizzante della Tearchia. Cfr. CH IX (260CD) 37,17-38,10; DN II (644BC) 129,12-130,4.

[15] Si veda in A.O. Lovejoy la descrizione di ciò che effettivamente significava per i medievali (che a loro volta l’avevano ereditata dal neoplatonismo) la visione geocentrica dell’universo: il centro lungi dall’essere la parte migliore è al contrario un luogo ben lontano dall’Empireo. Quel che vi è di più alto nel cosmo non è il centro ma il limite superiore (La grande catena dell’essere, tr. it. a c. di L. Formigari, Milano, Feltrinelli 1966, pp. 107-108).

[16] EH I (376B) 67,4-6.

[17] EH I (377A) 68,1-4; EH V (501AB) 104,15-105,21.

[18] CH II (144B) 15,1-5; I (121C) 8,14-21.

[19] Cfr. ad esempio DN XI (952C-953A) 220,7-21; VIII (896A) 204,8-11; (896B) 204,18-21 e (897C) 207,1-5. Si leggano al riguardo le belle pagine di H. U. von Balthasar, in Gloria, vol. II, Stili Ecclesiastici, pp. 125-187 della trad. it. (Milano, Jaca Book 1978).

Keywords: Dionysius the Areopagite, Pseudo-Dionysius, chàris, grace, hierarchy.

 

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