dionysiana

filosofia, religioni e laicità

Categoria: filosofia medievale

L’ateismo degli altri

spinoza

Da Filosofia e teologia 29 (2014), 2. Il Dio sospeso, pp. 295-303
(con modifiche).


ABSTRACT

An atheist is such only for the God of someone else and everyone could be an atheist for others. No one is safe and the traditional notion of ‘fides implicita’ shows how within the religions themselves there is room for a kind of accepted and legitimate ‘atheism’. To build a dialogical space we have to suspend temporarily the theism-atheism dichotomy. A methodological and preliminary atheism, not closed to hope, is perhaps the only way by which we can establish a connection between faith and discursive reason.

Si è atei, sempre, per il Dio di qualcun altro e ciascuno può essere l’ateo di altri. Nessuno è al riparo e la nozione tradizionale di ‘fides implicita’ mostra come all’interno delle religioni stesse vi sia spazio per una sorta di ‘ateismo’ accettato e legittimo. Per costruire uno spazio dialogico occorre sospendere momentaneamente la dicotomia teismo-ateismo. Un ateismo metodologico e propedeutico, non chiuso alla speranza, è forse la sola via per la quale sia possibile stabilire un contatto tra fede e ragione discorsiva.

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TESTO

I ciechi che parlano dell’ateismo! Esiste forse già un teista? Come se ci fosse uno spirito umano padrone dell’idea di divinità! (F. Schlegel, Idee, 118).

[295] Si è atei, sempre, per il Dio di qualcun altro. Il termine esprime negazione o privazione, ma a qualificarlo e a dargli senso è ciò che viene negato, rifiutato, o dichiarato mancante. Solo il teismo dà significato all’ateismo: non Dio (la res che sarebbe negata) ma un’idea di Dio. L’ateismo non si rivolge a un oggetto, una cosa, un’entità. Nemmeno, in fondo, all’entità o cosa chiamata «Dio». Ha come riferimento le rappresentazioni di altri uomini, ritenute adeguate (o comunque sufficienti) ad esprimere Dio, il cui rifiuto possiamo quindi definire «ateo». Concetti, dottrine adeguate o sufficienti a definire l’oggetto designato, sia dal punto di vista di chi vi aderisce, sia specularmente da quello di chi vi si contrappone negandone l’esistenza. Idee, rappresentazioni considerate capaci di esprimere la «cosa» di cui si parla. Resta da chiedere se un linguaggio concetto appropriato riguardo al divino vi sia.

[296] È in riferimento alla nostra personale esperienza che proclamiamo «ateo» colui che non la riconosce. Costui non è semplicemente un non credente, è qualcuno mancante di qualcosa di cui io ho esperienza o che nega vi sia questo qualcosa. Chi ha un altro Dio, ovviamente, non è solo per questo un ateo, ma è ateismo rifiutare il carattere sacro e divino di quel che noi abbiamo accettato come tale. Ed è sempre stato così.
Gli epicurei, pur con i loro dèi negli intermundia, sono stati coerentemente definiti atei da greci e cristiani, antichi e moderni [1]. Analogamente il Deus di Spinoza non ha mai impedito di sospettare della sua filosofia. Non basta che qualcuno parli dell’esistenza di un Dio perché si possa escludere che sia ateo. L’ateismo è quoad nos.
Di ateismo furono accusati i primi cristiani, i quali reagirono con sdegno: assurdo trattare in tal modo proprio loro, i credenti nel vero Dio [2]. Però Giustino ammette che, in un certo senso, potevano dirsi «atei» rispetto agli dèi pagani [3]. I cristiani comunque non mancarono di ritorcere l’accusa contro i loro avversari. Già il Nuovo testamento definisce i gentili, prima della conversione, sine Deo in mundo (ἄθεοι ἐν τῷ κόσμῳ) [4]. Nel Martirio di Policarpo vediamo come l’epiteto venga fatto rimbalzare dagli uni agli altri: a Policarpo viene ingiunto di dire, in riferimento ai cristiani, «Basta con gli atei». Lui rivolgendosi verso la folla dei «pagani senza legge» (ἀνόμων ἐθνῶν) e indicandoli con la mano scandisce: «Basta con gli atei» (Αἶρε τοὺς ἀθέους) [5]. Sarebbe un errore accantonare questi episodi come mere strumentalizzazioni polemiche o frutto di ignoranza, anzi l’accusa contro i cristiani diviene più comune nel II secolo forse proprio per una migliore conoscenza del cristianesimo [6]. Tutto sommato Giustino ha ragione: negando qualsiasi valore alla religione tradizionale i cristiani sono, rispetto ad essa, «atei».

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[297] Cornelio Fabro, sull’Enciclopedia Cattolica, dava dell’ateismo una descrizione assai comprensiva. Vi inseriva le civiltà e le religioni orientali, jainismo e buddhismo, allo stesso tempo negava vi fosse «distinzione tra ateismo e politeismo idolatrico» [7]. Sostanzialmente nella nozione «rientrano, dal punto di vista teologico e metafisico, anche tutte quelle filosofie e religioni, che si fanno di Dio un concetto contrastante con l’esigenza della sua Natura…». Campo assai vasto, come si vede. D’altronde «queste concezioni, con l’illusione di una accettazione della divinità, allontanano in un certo senso più dell’ateismo dalla conoscenza del vero Dio» [8]. Alla fine, anche il modernismo è stato autorevolmente etichettato come propedeutico all’ateismo [9]. Certo mette un po’ a disagio ampliare a tal punto l’uso del termine, ad ogni modo qualunque definizione si scelga dipenderà innanzitutto da quella che riteniamo sia la concezione adeguata di Dio e del divino. Più è determinata e finita, più saranno gli atei.
Sine ira et studio legioni di intellettuali, prudenti e consapevoli, hanno mostrato una sorprendente larghezza nell’elargire la qualifica di «ateo». Non va forse smascherato l’ateismo di Lutero, Melantone e Calvino? È quel che scrivono alcuni noti autori cattolici. [10] Di contro, tra i riformati vi è chi ritiene la Chiesa Cattolica causa di ateismo [11]. Per i gesuiti sono sospetti Giansenio, Cartesio e Pascal, mentre il frate cappuccino Valeriano Magni non risparmia giusto i seguaci di Ignazio di Loyola [12]. Un esponente della Chiesa Unitariana, la quale a sua volta ha costituito un facile bersaglio di accuse da parte delle altre confessioni cristiane, può invece [298] ritenere che la forma più pericolosa di ateismo non sia quella aperta e palese di chi si dichiara tale, quanto «l’infedeltà pratica che accetta ogni articolo del credo popolare» mentre nella vita quotidiana si rivela «senza onestà, amore o Dio nel mondo» [13]. Ma quale religione potrebbe allora garantire ai suoi aderenti di non essere «atei»? Non è facile per nessuno, a questo punto, riuscire ad ottenere una sicura immunità dall’accusa di ateismo [14]. Paradigmatico è il caso di Newman: nella sua teoria dello sviluppo del dogma si è potuto scorgere, senza che la cosa procurasse particolari difficoltà (e con scarso senso del ridicolo), una manifestazione dell’ateismo del suo tempo [15].
È forte la tentazione di considerare questi episodi unicamente quali curiosità storiche o esempi di uso errato e denigratorio del termine. Ci consentirebbe di accantonare i numerosissimi casi del genere, abbandonandoli a una teratologia storiografica per noi irrilevante. Tuttavia vi è in essi molto più, emerge una struttura di fondo che va oltre inimicizie umane e miopie dottrinali e finisce col toccare un aspetto centrale della questione: ciascuno può essere l’ateo di qualcun altro.


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In una recente sintesi si legge che solo il negare il Dio di un «sofisticato monoteismo» comporta l’essere ateo. Assumiamo, senza tanti rovelli, che sia così. Sembrerebbe infatti che le divinità tribali e quelle delle religioni politeiste siano «di scarso o nessun interesse filosofico» ed è una fortuna, perché in tal modo evitiamo di considerare atea ogni manifestazione di incredulità nei loro confronti [16]. Meglio però restringere ulteriormente il [299] campo al Dio ebraico-cristiano, personale e provvidente. Con il vantaggio di poter continuare a classificare come forme di ateismo alcuni monoteismi per conto loro abbastanza sofisticati (si pensi a Spinoza o ai deisti). Negare che vi sia un ordine cosmico è ateo, ma identificare semplicemente Dio con quest’ordine potrebbe esserlo altrettanto.

La differenza tra ateismo e teismo risiede, sembra, nell’oggetto di una credenza. Ma cosa, esattamente, si crede (o non si crede)? L’aspetto cognitivo, il contenuto concettuale è davvero così essenziale nello stabilire la fede di una persona?

Il problema forse è più giuridico e casuistico. Prendiamo dunque come guida un’opera autorevole e dall’ampia eco in questo genere di letteratura: il commento alle decretali di Innocenzo IV, l’Apparatus in quinque libros decretalium [17].
Fidei mensura quaedam est… C’è una certa misura della fede, che è sufficiente all’uomo comune. Se ci domandiamo quanto davvero importi credere nelle dottrine fondamentali di una religione, possiamo talora ricevere risposte sorprendenti. Dopo anatemi, roghi, conflitti secolari non è da mettere in dubbio che il contenuto delle nostre credenze sia vitale per la salvezza. Non è affatto indifferente cosa si crede. Fino a una certa misura, almeno. Perché neppure dobbiamo pretendere troppo. Pochi fedeli saprebbero districarsi senza impacci nei lacci di teologie millenarie, ricchissime, estremamente sottili e complesse. La possibilità dell’errore è sempre in agguato, la salvezza diventerebbe una chimera. Una congiunzione, un _que, una sfumatura semantica, e saremmo perduti.
Tutto sommato, è stato risposto, può bastare una fede implicita. Sufficit credere in Dio e credere che egli retribuisca ogni bene. Ma allora i dogmi, le condanne dottrinali, Ario, Nestorio e le eresie sono forse irrilevanti? Assolutamente no, vi è un limite minimo su cui non si deve transigere e che invece di per sé sufficit, basta a tutti coloro che non sono chierici: credere verum esse quicquid credit ecclesia, credere vero qualunque cosa crede la Chiesa [18].
[300] A parlare in modo così trasparente è un’autorità cattolica, ma emerge qui una struttura, ora esplicita ora tendenziale, sottostante a molte tradizioni religiose differenti. Sì, sarebbe opportuno che i laici dotati di talento e ingegno si dedicassero all’approfondimento degli articoli di fede, ma se anche non lo fanno, non pare che pecchino (quamvis non videatur, quod peccant etiamsi eis non intendant). Le doti intellettuali, per se stesse, non comportano un obbligo di conoscenza. Opinioni gravemente erronee, quanto al contenuto dottrinario, possono esser credute senza danno alcuno per la nostra anima, purché si ignori che sono in contrasto con la dottrina della Chiesa e non le si difenda contro di essa [19]. L’unico ostacolo alla salvezza è il mancare del solo requisito fondamentale: credere in qualunque cosa creda la Chiesa.

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Sarebbe fuorviante forzare queste parole per renderle rappresentative in generale della teologia e della dottrina cattolica. Già in quel testo alcune espressioni di cautela (etiam forte, ut dicunt quidam, ecc.) dovrebbero metterci sull’avviso, si aggiunga che in molti, da Bonaventura e Tommaso in poi, si sono preoccupati di delimitare con vincoli più stretti l’ambito della fides implicita [20]. Tuttavia, pur senza sottovalutare l’ampia influenza di un testo normativo come l’Apparatus innocenziano, è irrilevante per il nostro [301] discorso se esso esponga o meno la posizione della Chiesa. È a noi sufficiente che rappresenti una possibilità all’interno del cattolicesimo. Per Adolf von Harnack la dottrina della fides implicita non fa che dare espressione logica a una vecchia concezione cattolica [21]. Tommaso, da parte sua, non contesta che il bonum fidei consista sostanzialmente nell’obbedienza [22]. Così, dice, bisogna evitare di indagare troppo sulle convinzioni dei semplici fedeli, a meno che non li si sospetti di esser stati fuorviati dagli eretici. Anche in quest’ultimo caso, d’altronde, se le credenze erronee non sono difese con pertinacia, i fedeli non vanno ritenuti colpevoli [23]. In fondo, quel che si crede mediante un giudizio autonomamente formato è secondario rispetto all’obbedienza. Per quanto sul piano teorico Tommaso sia meno condiscendente verso la fides implicita, avvertendone le ambiguità, sul piano della prassi vi rimane poi vincolato. Ponendo al centro della vita religiosa l’adesione a un contenuto dottrinale ci si scontra inevitabilmente con il problema dell’impossibilità pratica di garantire la salvezza ai rudes, a coloro che non hanno un’adeguata preparazione teologica.
Ad ogni modo, indipendentemente da qualunque posizione sia stata successivamente presa sul tema della fides implicita, una cosa soltanto conta qui: come minimo, nella forma esposta da Innocenzo IV, non è dottrina incompatibile con una parte della tradizione cattolica. L’aspetto essenziale della religione per il credente ordinario sembrerebbe ridursi alla semplice obbedienza nei confronti dell’autorità. Sebbene ingenerosa o addirittura caricaturale come caratterizzazione dell’intero cattolicesimo, si tratta di una tentazione non priva di riscontri nella storia (e nell’attualità).

[302] Calvino attaccherà su questo punto con forza, senza tener conto della complessità del tema o delle sfumature all’interno della teologia scolastica. Per lui «la finzione di una fede implicita non solo seppellisce, ma distrugge totalmente la vera fede». A cosa si ridurrebbe il credere, forse a non intendere nulla e a sottomettersi obbedientemente alla Chiesa? La replica è netta: non in ignoratione, ma in cognitione risiede la nostra fede. Altrimenti si potrebbe non credere realmente in nulla di preciso, purché si apponga la condizione «credo se così fa la Chiesa». Ma è assurdo immaginare di poter avere la verità nell’errore, la luce nelle tenebre, la scienza nell’ignoranza [24].
Pensare che basti respingere con foga una dottrina perché si risolva da sé il problema per il quale la dottrina nasce è certo illusorio [*], tuttavia la reazione di Calvino è comprensibile: una credenza in realtà priva di oggetto determinato, fondata unicamente sulla sottomissione a un’autorità visibile, quale forma di teismo sarebbe esattamente? Non credere in niente se non nell’autorità: non siamo qui pericolosamente vicini a una forma di indifferentismo religioso o addirittura di ateismo?
Se pare ci si stia spingendo troppo oltre, si pensi al fenomeno, non nuovo, dei cosiddetti «atei devoti»: in un certo senso essi rappresentano il punto di contatto fra due ateismi, uno esterno e uno interno al cristianesimo [25]. È abbastanza indicativo che la loro comparsa provochi tanto l’aperto fastidio di una parte dei fedeli, quanto il sincero entusiasmo di altri. Nella sua unilateralità, alla fine, l’estremizzazione operata da Calvino mette in risalto una tendenza realmente esistente. La condiscendenza verso gli «atei devoti», cartina al tornasole di una sorta di ateismo implicito, sorprende poco se il carattere essenziale della fede viene ricondotto fra gli stessi fedeli al credere verum esse quicquid credit ecclesia [26]. Ed è un rischio al quale non [303] sfugge né il cattolicesimo né il calvinismo, come qualsiasi religione fondata su una dottrina salvifica che richieda un’adesione intellettuale.

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Non basta un Dio, un mondo, un senso per avere speranza. Non dobbiamo fare della dottrina un idolo, non possiamo imprigionare il divino nel recinto delle nostre rappresentazioni [27]. La rappresentazione, il logos, la dottrina hanno un valore positivo, sarebbe sciocco rifiutarli e vano credere di poterne fare a meno. Ma costituiscono solo un punto d’appoggio, una base di partenza per il salto verso l’ἀνυπόθετον [28].
La costruzione di uno spazio dialogico richiede di operare una sospensione delle divisioni dottrinali, degli aut aut preliminari e fondativi, tornando al «Dio ignoto» che tutti andiamo cercando a tentoni benché egli non sia lontano da noi [29]. Un ateismo metodologico e propedeutico, non chiuso alla speranza, è forse la sola via per la quale sia possibile stabilire un contatto tra fede e ragione discorsiva. La lezione della teologia negativa, di Bonhoeffer e ora di Kearney [30] è antica ma va continuamente riscoperta, perché ciò che è al di là dell’essere e della parola è anche «di ogni silenzio più ineffabile» [31] e non consente all’uomo di acquietarsi né in una formula dottrinale sclerotizzata né in silenzio sterile e vuoto.
L’ateismo, il nostro e l’altrui (quali che siano le credenze di ciascuno), offre un dono alle religioni. Ci ricorda di non rinchiuderle entro uno steccato dottrinale e, col contestare tanto l’adeguatezza delle definizioni quanto la loro capacità di catturare una res, costituisce un invito a continuare sempre a mettere alla prova le nostre idee, affrontando la sfida di un’alterità irriducibile e necessaria. Le idee sono importanti, sarebbe un errore ritenerle indifferenti, ma c’è una cosa ancora più fondamentale, dalla quale le idee stesse traggono vita, ed è la relazione fra le persone.


NOTE

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[1] La filosofia epicurea è generalmente classificata tra le forme di ateismo. Così fa anche U. Perone alla voce Ateismo, nell’Enciclopedia filosofica del Centro studi filosofici di Gallarate, Bompiani, Milano 2006.

[2] Qualche esempio in Cassio Dione LXVII, 14; Giustino, Apologia I, 6 e II, 3; Atenagora, Supplica 3-4 e 13. Cfr. A. von Harnack, Der Vorwurf des Atheismus in den drei ersten Jahrhunderten, in Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur, a c. di O. von Gebhardt e A. von Harnack, Hinrichs, Lepzig, 1905 (TU XXVIII, 4); P. F. Beatrice, “L’accusation d’athéisme contre les Chrétiens”, in Hellénisme et Christianisme, a cura di M. Narcy ed É. Rebillard, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq, 2004, pp. 133-151. Sull’ateismo antico in generale cfr. J. N. Bremmer, “Atheism in Antiquity”, in The Cambridge Companion to Atheism, a cura di M. Martin, Cambridge UP, Cambridge, 2007, pp. 11- 26.

[3] Giustino, Apologia I, 6 : «ammettiamo certamente di essere atei rispetto a queste sedicenti divinità» (ὁμολογοῦμεν τῶν τοιούτον νομιζομένων θεῶν ἄθεοι εἶναι).

[4] Ef. 2, 12.

[5] Martirio di Policarpo IX, 2.

[6] Beatrice, “L’accusation…”, cit., p. 136: «L’accusation d’athéisme dérive fort probablement d’une connaissance, devenue avec le temps plus proche et précise du phénomène chrétien et de ses réelles implications strictement anti-polythéistes, de la part des autorités et du peuple».

[7] C. Fabro, s.v. “Ateismo”, in Enciclopedia cattolica, Ente per l’Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1949, col. 268.

[8] Fabro, s.v. “Ateismo”, cit., col. 266 (corsivo mio). Del resto è già ateismo il «demolire i fondamenti delle prove dell’esistenza di Dio, della necessità della religione e del culto e di quanto necessariamente vi si connette (Provvidenza, immortalità dell’anima, sanzione morale…).» Nella sua Introduzione all’ateismo moderno del 1964 torna ancora sull’argomento. Per evitare di ricadere nell’ateismo, scrive, occorre che Dio sia riconosciuto come l’essere supremo, unico e sommo, puro spirito, trascendente e «persona supremamente libera» (in C. Fabro, Opere complete 21, Edivi, Segni, 2013, pp. 52-53). Agnosticismo, politeismo, naturalismo, vitalismo, panpsichismo, monismo, panteismo, razionalismo, deismo, idealismo e immanentismo non soddisfano tali requisiti e sono da considerarsi dunque forme di ateismo.

[9] Fabro, s.v. “Ateismo”, cit., col. 277, che a sua volta si rifà a Pio X, Enc. Pascendi: «Ma basti sin qui per conoscere per quante vie la dottrina del modernismo conduca all’ateismo e alla distruzione di ogni religione. L’errore dei protestanti dié il primo passo in questo sentiero; il secondo è del modernismo: a breve distanza dovrà seguire l’ateismo.»

[10] A. Possevino S. J., Bibliotheca selecta de ratione studiorum VIII, apud Altobellium Salicatium, Venetiis, 1603, p. 382 (Tractatio de atheismis Lutheri, Melanchthonis, Calvini…); C. de Sainctes, Déclaration d’aucuns athéismes de la doctrine de Calvin et Bèze, Fremy, Paris, 1568.

[11] Un esempio in J. La Placete, De insanabili romanae ecclesiae scepticismo, Gallet, Amstelodami, 1696, p. V. Si veda soprattutto Giovanni Calvino, Institutio religionis christianae IV, 7, 27 (Opera I, a c. di G. Baum, E. Cunitz, E. Reuss, Schwetschke, Brunsvigae, 1863, p. 625): Sed quid tres aut quatuor pontifices enumero? Quasi vero dubium sit qualem religionis speciem professi sint jampridem Pontifices, cum toto cardinalium collegio, et hodie profiteuntur. Primum enim arcanae illius theologiae, quae inter eos regnat, caput est, nullum esse Deum («Ma che enumero a fare tre o quattro pontefici? Come se ci fosse dubbio alcuno su quale specie di religione i pontefici, con tutto il collegio dei cardinali, hanno da lungo tempo professato e professano ancora oggi. Il primo articolo, infatti, di quell’arcana teologia che tra loro domina incontrastata, è che non vi è nessun Dio»).

[12] J. Hardouin S.J., Athei detecti, in Opera varia, Du Sauzet, Amstelodami, 1733. V. Magni, Christiana et catholica defensio adversus Societatem Jesu haeresi, vel atheismo infectam, [S.l.], 1661.

[13] C. W. Wendte, “Editor’s Preface”, in T. Parker, Theism, Atheism and the Popular Theology, American Unitarian Association, Boston, 1907, p. IX: «the most dangerous form of atheism is not that which frankly avows itself such, and yet lives a pure, self-restrained, and kindly life, but the practical infidelity which accepts all the articles of the popular creed while in its daily conduct it discloses that it is without honesty, love, or God in the world.»

[14] Non sfuggono all’accusa Aristotele, gli scotisti, Campanella (a cui non servirà l’aver scritto l’Atheismus triumphatus), né i Quaccheri: cfr. J. F. Buddeus, Theses theologicae de atheismo et superstitione, Vonk van Linden, Trajectum ad Rhenum, 1737; A. C. Roth, Atheistica Thomasiana, Lankisius, Lipsiae, 1698, p. 29.

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[15J. Buchanan, Modern atheism, under its forms of pantheism, materialism, secularism, development, and natural laws, Gould & Lincoln, Boston, 1857. Su Newman si vedano le pp. 116-126 (a esser preso di mira è l’Essay on the Development of Christian Doctrine, Toovey, London, 1845). Per Buchanan ammettere una progressione nello sviluppo della dottrina rischia, sia pur indirettamente, di compromettere il carattere rivelato e trascendente del cristianesimo. Analogamente ad altre forme di evoluzionismo, una tale concezione spingerebbe verso un naturalismo di fatto.

[16] J. J. C. Smart, “Atheism and Agnosticism”, in The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Spring 2013 Edition), a c. di E. N. Zalta: «’Atheism’ means the negation of theism, the denial of the existence of God. I shall here assume that the God in question is that of a sophisticated monotheism. The tribal gods of the early inhabitants of Palestine are of little or no philosophical interest. […] Similarly the Greek and Roman gods were more like mythical heroes and heroines than like the omnipotent, omniscient and good God postulated in mediaeval and modern philosophy.»

[17] Innocenzo IV, Commentaria… super libros quinque Decretalium, Feierabendt, Francofurti ad Moenum, 1570.

[18] Innocenzo IV, Commentaria, cit., I, tit. 1, c. 1: quaedam est fidei mensura ad quam quilibet tenetur et quae sufficit simplicibus et etiam forte omnibus laicis, scilicet, quia oportet quemlibet adultum accedentem ad fidem credere quia Deus est et quod est remunerator omnium bonorum. Item oportet [omnes] alios articulos fidei credere implicite, idest credere verum esse quicquid credit ecclesia catholica («vi è una certa misura della fede alla quale si è tenuti e che è sufficiente alla gente comune e forse anche a tutti i laici: ciascun adulto che si accosti alla fede deve credere che Dio è e che retribuisce ogni bene. Poi deve credere a tutti gli altri articoli di fede implicitamente, cioè deve credere vero qualunque cosa crede la Chiesa Cattolica»).

[19] Ibid.: Item videtur, quod etiam laici quibus Deus dat talentum subtilis ingenii, melius faciunt, si suum ingenium impendant in cognitione praedictorum, quamvis non videatur, quod peccant etiamsi eis non intendant. […] in tantum autem valet implicita fides ut dicunt quidam, quod si aliquis eam habet, scilicet quod credit quicquid ecclesia credit, sed falso opinatur ratione naturali motus, quod pater maior vel prior sit filio, vel quod tres personae sunt tres res a se invicem distinctae, quod non est haereticus, nec peccat, dummodo hunc errorem suum non defendat, et hoc ipsum credit, quia credit ecclesiam sic credere, et suam opinionem fidei ecclesiae supponit, quia licet male opinetur, tamen non est fide sua, imo fides sua fides est ecclesiae («Sembra poi che anche i laici ai quali Dio abbia donato un ingegno sottile farebbero bene a impegnarlo nella conoscenza delle cose divine, sebbene non pare che pecchino se anche non si rivolgano ad esse. […] a tal punto vale la fede implicita, come dicono certuni, che se uno la possiede, ovvero crede qualunque cosa crede la Chiesa e però, mosso dalla ragione naturale, falsamente ritiene che il Padre sia maggiore o primo rispetto al Figlio, o che le tre persone sono tre realtà distinte, non è eretico né pecca, almeno fino a quando non difende il suo errore e vi crede perché crede che così faccia la Chiesa e scambia la sua opinione con la fede della Chiesa. La ragione di ciò è che, sebbene abbia un’opinione sbagliata, tuttavia non è questa la sua fede, ma la sua fede è la fede della Chiesa»).

[20] Per Bonaventura da Bagnoregio (In Sent. III, d. 25, a. 1, q. 3) la sola fides implicita non è sufficiente: «credere omnes implicite est fidei diminutae». Condizione minima per la salvezza è credere qualcosa implicitamente e qualcosa esplicitamente («quosdam implicite, quosdam explicite»). Tommaso d’Aquino ritiene necessaria la fede nei prima credibilia, ovvero negli articuli fidei (ST II-II, q. 2, a. 5). Critico sarà anche J. H. Newman, il quale affaccia il timore che limitarsi a richiedere una fides implicita «in the educated classes will terminate in indifference, and in the poorer in superstition» (On consulting the faithful in matters of doctrine, ed. by J. Coulson, Sheed & Ward, Kansas City, 1961, p. 106). In tempi più recenti il concetto di fides implicita ha assunto un significato ben diverso nel contesto della teologia delle religioni, soprattutto grazie a K. Rahner, ma la cosa esula dal nostro tema.

[21] A. von Harnack, Lehrbuch der Dogmengeschichte III, Mohr, Freiburg i. Br., 1897, p. 453. L’osservazione non è priva di una punta polemica.

[22] Tommaso d’Aquino, ST II-II, q. 2, a. 5, arg. 3: bonum fidei in quadam obedientia consistit.

[23] Tommaso d’Aquino, ST II-II, q. 2, a. 6, ad 2: simplices non sunt examinandi de subtilitatibus fidei nisi quando habetur suspicio quod sint ab haereticis depravati, qui in his quae ad subtilitatem fidei pertinent solent fidem simplicium depravare. Si tamen inveniuntur non pertinaciter perversae doctrinae adhaerere, si in talibus ex simplicitate deficiant, non eis imputatur («i semplici fedeli non devono essere esaminati sulle sottigliezze della fede, se non quando ci sia il sospetto che siano stati pervertiti dagli eretici, i quali sono soliti pervertire la fede della gente semplice proprio in queste sottigliezze. Tuttavia ciò non sia imputato loro a colpa, se si riscontra che i semplici fedeli non aderiscono a una dottrina perversa con ostinazione e che sono caduti in errore per ingenuità)». Che l’eresia consista essenzialmente nel discostarsi consapevolmente dal magistero ecclesiastico rimarrà un classico leitmotiv della teologia cattolica, mentre il semplice errore materiale viene considerato del tutto irrilevante: de ratione haereseos est recessus a regula ecclesiastici magisterii, qui in casu nullus est, cum sit simplex error facti circa id quod regula dictat (L. Billot, Tractatus de ecclesia Christi I, Giachetti, Prato, 1909, p. 293). Sembra potersene concludere che a esser dannosa sia non tanto l’idea creduta in sé, ma la ribellione al dettato della Chiesa. Billot sarà successivamente un convinto sostenitore dell’Action française.

[24] Calvino, Institutio religionis christianae, cit., III, 2, 2-3, pp. 473-474): Figmentum autem de fide implicita, veram fidem non modo sepelit, sed penitus destruit. Hoccine credere est, nihil intelligere, modo sensum tuum obedienter ecclesiae submittas? Non in ignoratione, sed in cognitione sita est fides […]. Fides enim in Dei et Christi cognitione, non in ecclesiae reverentia iacet. […] Quae inconsiderata facilitas, quum certissimum sit in ruinam praecipitium, ab iis tamen excusatur, quia definite nihil credat, sed apposita conditione, si talis ecclesiae sit fides. Ita in errore veritatem, in caecitate lucem, in ignorantia rectam scientiam teneri fingunt («Queste finzioni riguardo a una fede implicita non solo seppelliscono, ma distruggono totalmente la fede autentica. Sarebbe questo il credere, non intendere nulla e solo sottomettersi obbedientemente alla Chiesa? Non nell’ignoranza, ma nella conoscenza è riposta la fede […] La fede consiste nella conoscenza di Dio e di Cristo, non nella reverenza per la Chiesa. […] Questa superficialità sconsiderata, quantunque sia certissimo precipizio verso la rovina, da costoro tuttavia è scusata, in quanto non crede nulla in modo determinato, ma appone la condizione “se tale è la fede della Chiesa”. Così immaginano sia tenuta la verità nell’errore, la luce nell’oscurità, la retta scienza nell’ignoranza»).

[*] In effetti lo stesso Calvino si ritroverà a dover successivamente giustificare una qualche forma di fides implicita. Si veda David Anders, John Calvin on Implicit Faith (2011)

[25] Scrivendo a proposito di Charles Maurras si è detto: «Non chrétien, catholique sociologique d’institution» (P. Chaunu, Charles Maurras et les catholiques français, in «Histoire, économie et société», XIV (1995), p. 143.

[26] Del resto, scriveva A. Tanquerey al volgere del XIX secolo, dopo che sia stata riconosciuta l’autorità storica e sociale, per così dire «umana», della Chiesa, facilmente i simplices o rudes pervengono all’ammissione della sua autorità divina e infallibile: Admissa auctoritate ut ita dicam humana Ecclesiae, facile ad ejus divinam et infallibilem auctoritatem devenient (Synopsis theologiae dogmaticae fundamentalis I, Desclée, Tornaci, 1899, p. 58).

[27] Di un cristianesimo senza fede, ridotto a morale e dottrina, ha parlato recentemente Papa Francesco: «Quando un cristiano diventa discepolo dell’ideologia, ha perso la fede e non è più discepolo di Gesù» (Discepoli di Cristo non dell’ideologia, «L’Osservatore Romano», 18/10/2013).

[28] Platone, Resp. VI, 511b: «punti di appoggio e di slancio (ἐπιβάσεις τε καὶ ὁρμάς) per giungere sino a ciò che è al di là di ogni presupposto, al principio del tutto».

[29] At. 17, 23-27. Il discorso di Paolo all’Areopago illustra bene come si costruisca (e si perda) un piano di confronto comune.

[30] R. Kearney, Ana-teismo. Tornare a Dio dopo Dio, tr. it. a c. di . M. Zurlo, Fazi, Roma, 2012.

[31] Proclo, Theologia platonica II, 11: πάσης σιγῆς ἀρρητότερον.

Timor Domini

 

Timore, dolore, obbedienza
La paura e il ruolo della mediazione sacramentale

Fear, sorrow, obedience and the role of sacramental mediation
da «Filosofia e Teologia» 26 (2012), pp. 332-339

 


 

ABSTRACT

Se il timore di Dio non può essere ridotto al timore della pena e del castigo, quest’ultimo è comunque centrale sia per una comprensione di come il concetto si è articolato nel corso della storia, sia per le implicazioni dottrinali. Infatti, in collegamento con la nozione di attritio, il timor gehennae assume un ruolo essenziale nel sacramento della penitenza e intorno ad esso si combatte un’importante battaglia sul ruolo della Chiesa e della sua mediazione sacramentale.

Whilst the fear of God is not reducible to fear of punishment and retribution, the latter is essential to understand the historical development of the concept. In fact, together with the notion of attrition, the “timor gehennae” plays a pivotal role in the sacrament of penance and is the battleground of an important fight about the role of the Church and her sacramental mediation.

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Fear God Onlye? (tychofarrar, on Flickr).

 


 

Il senso della finitezza dell’uomo, l’angoscia esistenziale, il mysterium tremendum di fronte al sacro che ci travolge sono – come negarlo? – aspetti essenziali della dimensione religiosa. È legittimo e proficuo ricordare che anche il timor domini, troppo spesso e troppo semplicisticamente ridotto alla sola accezione di timor servilis, timore del castigo, affonda in realtà le sue radici in una gamma ben più ampia e profonda di sentimenti. Del resto, la stessa teologia scolastica, che pure non ha trascurato di far largo uso del timor servilis, ben sapeva che quest’ultimo era solo un aspetto del donum timoris, e non il più importante [1]. Tuttavia, pur riconoscendo ciò, resta il fatto che una larga parte della riflessione teologica e della predicazione hanno posto al centro della loro attenzione la paura del castigo eterno. Ridefinire oggi il timore di Dio in modo da escludere una porzione consistente, se non addirittura preponderante, dei significati assunti dal concetto nel corso della storia rischia di portare a una sostanziale incomprensione di questa stessa storia.

Certo, l’esperienza della finitezza è fondamentale, rappresenta la radice ultima di quel complesso di idee, rappresentazioni e sentimenti cristallizzate nell’espressione timor domini. Ma le fondamenta di un edificio, pur imprescindibili, non spiegano tutto quel che su di esse viene costruito: la forma di un fabbricato dipende anche da altri fattori, non irrilevanti al fine di apprezzarne il valore e la funzione. Che ruolo ha giocato dunque il timore servile? Su di esso si è combattuta una battaglia di non poco conto: ignorarla o trascurarla difficilmente ci condurrà a una comprensione più autentica dei nodi concettuali sottintesi.

Un singolo episodio, forse non troppo importante in sé, ci permetterà di ricapitolare brevemente una molto più lunga serie di questioni. Prima, però, osserviamo che la tradizione scolastica non è stata univoca nel definire i vari significati di timor [2]. In Pietro Lombardo troviamo uno schema quadripartito dove tra il servilis e il castus compare la variante intermedia del timor initialis, la cui definizione resta peraltro abbastanza vaga:

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Al timore servile si guarda come qualcosa di buono e utile, sebbene da solo insufficiente. Serve, in una prima fase, a educare e ad abituare al giusto, fino a quando non si cominci ad amare quel che prima ci appariva duro [3]. Per quanto possa apparire strano che l’amore scaturisca dall’imposizione e dall’abitudine, una tale pedagogia dell’autorità non è priva di una sua efficacia pratica e costituirà il principio direttivo su cui si fonderanno, da Agostino in poi, le giustificazioni del ricorso alla coercizione in materia di fede [4].

Ma le classificazioni erano varie. Nel De dono timoris di Umberto di Romans, maestro generale dei domenicani al tempo di Tommaso, troviamo elencate sette diverse specie di timore (Umberto stesso osserva che altri proponevano distinzioni differenti) [5]. Fra queste la servile sembra considerata con meno favore: se non è peccato di per sé, tuttavia non libera dal peccato e vi rimane attaccata. Anche in questo caso, come in Pietro Lombardo, il criterio ordinatore è il grado di maggiore o minore bontà.

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L’esigenza di completezza e simmetria porta a distinguere tra timore mondano e umano e in ultimo fa introdurre una forma reverenziale, comune sia agli uomini sia agli angeli. Compare, in mezzo, un timore naturale, né buono né malvagio, insito nel nostro stesso essere e tendente a evitare conseguenze nocive.

Al di là delle differenze, in tutti gli schemi troviamo l’esigenza di introdurre una o più forme intermedie tra servilis e filialis, che non siano totalmente cattive o pienamente buone. Il passaggio dall’uno all’altro pare troppo brusco e va in qualche modo sfumato. Certo, i moti dell’animo umano, con la loro complessità, sono difficilmente afferrabili in formule univoche, ma qui non è l’analisi psicologica a essere in questione. Oggetto del discorso è la valutazione teologica della bontà del timore: le ambiguità della psiche umana sono, al riguardo, poco rilevanti e non impediscono di per sé una presa di posizione dottrinale. Per capire le ragioni di questa persistente opacità del timore servile dobbiamo guardare altrove. Facciamo dunque un salto in avanti.

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L’unica copia sopravvisuta della prima edizione del Beneficio di Giesu Christo (St. John’s College, Cambridge).

 

Il Trattato utilissimo del beneficio di Giesù Christo crocifisso verso i Christiani è l’espressione più nota e influente delle aspirazioni di riforma della Chiesa che nella prima parte del XVI secolo percorrono anche l’Italia, in sintonia con quanto accade in Germania e nel resto d’Europa [6]. Pubblicato in forma anonima nel 1543, conobbe «una prodigiosa fortuna», almeno finché non fu posto nel Catalogo dei libri proibiti redatto dal Della Casa nel 1549 [7]. Verso la fine del testo incontriamo una breve ma significativa riflessione sul timore di Dio. La tavola degli argomenti così riassume questa sezione conclusiva: «La Scrittura santa con il timore servile menaccia li tristi e con il filiale esorta li buoni cristiani» [8].

Motivo conduttore dell’opera è la giustificazione per fede, a cui però si potrebbero opporre quei «luoghi della Scrittura santa, i quali esortano l’uomo al timore, il quale pare che sia contrario alla certezza della predestinazione» [9]. La risposta, chiara e netta, è che il «timore penale» è proprio del Vecchio Testamento, mentre il Nuovo è contraddistinto dall’amore filiale. Ne consegue che «’l timore penale e servile non conviene al cristiano», infatti questo timore «è contrario alla allegrezza spirituale» che caratterizza l’esperienza cristiana e alla quale Paolo invitava esortando a vivere «sempre allegri» [10]. «Adunque, quando la Scrittura santa menaccia e spaventa, i cristiani debbano intendere che parla alli cristiani licenziosi» [11]. Costoro debbono «esser trattati come servi e tenuti in timore, infin che gustino quanto è soave il Signore», pervenendo all’amore filiale. Quando invece la Scrittura «esorta i cristiani veri al timore, non intende che debbiano temere il giudicio e la ira di Dio, quasi che egli sia per condannarli». Il timore a cui ci si riferisce è, in questo caso, filiale e non servile: piuttosto che nella paura del castigo consiste nel desiderio di non offendere Dio, essendo consapevoli dei limiti e della debolezza della nostra natura. «Non deeno mai i cristiani buoni spogliarsi del tutto di questo timore filiale, il quale è amicissimo della carità cristiana, sì come il servile nemico, né con lei può stare» [12]. Non ci sono ambiguità: il timore della pena non si accorda con la disposizione d’animo che deve avere il buon cristiano. L’uno esclude l’altra. La paura della punizione non ha alcun ruolo positivo ai fini della giustificazione, nemmeno in via transitoria.

asieltimordeiMaestro di Calamarca, Arcangelo archibugiere: Asiel Timor Dei,
Museo Nacional de Arte, La Paz, Bolivia (da khanacademy.org

 

Posizioni simili erano sostenute, in quegli anni, dagli esponenti della riforma in Germania [13]. La differenza con le laboriose meditazioni della scolastica a proposito del donum timoris è stridente. La cosa non poteva passare inosservata e quando nel 1544 Ambrogio Caterino Politi denuncia gli «errori e inganni luterani», contenuti nel Beneficio, non manca di osservare questo «dir contra la dottrina d’ogni buono autore e de’ santi predicatori, e’ quali predicandoci il timore di Dio e l’ira sua nel gran giorno del giudizio, han ridotto molti uomini a la vita buona». A irritare il frate domenicano è l’idea che «il vero cristiano non debba temere il giorno del giudizio e de l’ira di Dio» [14]. A ben considerare il timore è una passione dell’anima, che spinge a fuggire il male. Quel che conta è allora la radice da cui procede questa spinta: in tutti i casi è l’amore, che però può essere di sé o di Dio [15]. L’amore di Dio produrrà il timore buono e filiale, d’altra parte l’amore di sé non è necessariamente cattivo: solo quando sia disordinato lo diventa. Ciascuno, infatti, «è obbligato a amare se stesso, ma sotto Dio e dopo di lui» [16]. A condizione di non anteporre il nostro bene egostico a quello di Dio, l’amore di sé non deve essere vituperato e la paura della dannazione eterna, anche qualora nasca dall’istinto di evitare il male, svolge comunque una funzione positiva. Quando si accompagna al corretto riconoscimento del primato di Dio va considerata buona e conveniente, e persino quando la paura della pena convive ancora con la volontà di peccare continua a essere utile. Sebbene «defettuoso e servile … questo timore è iniziativo dell’amore» e discende anch’esso dallo Spirito Santo [17]. Obbligata qui la citazione di un noto passo agostiniano: «come insegna elegantemente sant’Agostino, assimigliando questo timore a una setola che ha seco legato un filo, con la quale setola quello che cuce introduce il filo nel panno, e così esce fuor la setola lassando il filo: tal effetto fa questo timor della pena, che introduce l’amor di Dio e lui si parte» [18]. Catarino Politi concede che la perfetta carità scacci il timore, ma aggiunge subito dopo che una tale perfetta carità non è di questo mondo. Ne consegue che «non può essere l’uomo senza qualche timor penale… mentre che siamo ne lo steccato de la pugna e ne lo stadio del corso» [19].

La contrapposizione tra le due visioni non poteva essere più netta, A innescarla, come abbiamo visto, è stata la controversia sulla predestinazione e sulla certezza dell’elezione divina. Ma in gioco c’è anche dell’altro. Perché è stato tanto importante, dal punto di vista cattolico, difendere il ruolo del timore servile? Il Concilio di Trento sentirà il bisogno di chiarire che il timore della giustizia divina rientra tra le condizioni per le quali il peccatore prepara la giustificazione mediante la grazia di Dio. Ritenere che la paura dell’inferno sia un male è dottrina, dopo Trento, solennemente sottoposta ad anatema [20]. Condanne simili saranno di nuovo pronunciate contro i giansenisti [21] e, al termine di un lungo e coerente sviluppo dottrinale, verrà ulteriormente ribadito che il timor gehennae, oltre a essere buono e utile, è un dono soprannaturale e motus a Deo inspiratus [22].

640px-Vincent_van_Gogh_-_SorrowVincent Van Gogh, Sorrow
(New Art Gallery, Walsall)

 

Sotto quelle che potrebbero apparire oziose controversie scolastiche un problema ben reale rischia di sconvolgere l’architettura complessiva della vita sacramentale: qual è il grado di dolore e di pentimento richiesto per la remissione dei peccati? Perché se è necessaria una piena contrizione (contritio), questa di per sé giustifica, anche senza il sacramento. Se invece è sufficiente una contrizione imperfetta (attritio), si può dubitare che ciò faccia diventare il sacramento qualcosa di puramente esteriore, senza un’adeguata intima trasformazione del soggetto penitente. Le ricadute, a cascata, investono dunque la funzione della penitenza, il potere delle chiavi e la stessa mediazione gerarchica della chiesa. Attrizione e timore servile sono concetti strettamenti legati fra loro, insieme sono presi di mira e insieme vengono difesi. Di attritio parlano soprattutto i grandi maestri francescani del XIII secolo (Alessandro di Hales, Bonaventura e Duns Scoto) [23], trovando però una violenta opposizione tra le fila dei riformatori [24]. il Concilio di Trento, di fronte agli attacchi, cristallizzerà la dottrina con queste parole:

Quanto a quella contrizione imperfetta, che viene detta attrizione perché prodotta comunemente o dalla considerazione della nefandezza del peccato o dal timore dell’inferno e delle pene, se esclude la volontà di peccare e si accompagna con la speranza del perdono, il concilio dichiara che non solo non rende l’uomo ipocrita e ancor più peccatore, ma è addirittura un dono di Dio e un impulso dello Spirito Santo… E quantunque da sola, senza il sacramento della penitenza, non possa condurre il peccatore alla giustificazione, tuttavia lo dispone a ottenere la grazia di Dio nel sacramento della penitenza [25].

Lasciamo da parte le ambiguità della formulazione e la difficoltà di concepire «un amore e timore di Dio naturali» (l’amor di sé e la paura di subire un danno) che d’altra parte siano «suscitati e determinati dalla grazia adiuvante di Dio» [26]. Non è però accidentale che mentre si tiene ferma la bontà dell’attritio, la si cerca di avvicinare alla contritio, sfumando le differenze proprio come è accaduto per il timor servilis e il filialis. Il nocciolo dello scontro non verte sulle caratteristiche che deve avere il dolore del penitente. La divisione dicotomica proposta da Lutero e dalla riforma, come pure la persistente ricerca di un punto di congiunzione intermedio da parte della Chiesa di Roma, rispondono a un’esigenza diversa. Con grande linearità il Dictionnaire de Théologie catholique dimostrava così la necessità dell’attritio: se per il sacramento della penitenza è richiesta una contrizione perfetta, che significato dovrebbe avere la remissione dei peccati da parte del sacerdote? I peccati, in questo caso, sarebbero perdonati senza che occorra l’assoluzione del prete. E allora il sacramento risulterebbe senza alcuna utilità e privo di ragion d’essere. «Nous ne pouvons nous arrêter à une conclusion qui répugne si évidemment à la divine sagesse» [27]. È necessario che vi sia uno stato in cui il sacramento possa perfezionare una disposizione non ancora sufficiente da parte dell’uomo. Per Harnack si trattava di una concezione alquanto magica del sacramento [28], ma è giusto questa efficacia, al di là di una piena conversione interiore, che fonda e legittima l’esistenza di una gerarchia mediatrice della grazia divina. Senza il timore della pena e la disponibilità di un medicamento, la Chiesa può solo offrire esempio e predicazione, sulla linea di Donato, Valdesio e della riforma protestante.

MandragoreL’inferno in un manoscritto del XIV sec.
(BNF Français 13096, da Mandragore)

 


NOTE

 

[1] Agonia, anxietas, verecundia, stupor e admiratio sono anch’essi da prendere in considerazione per delineare lo spazio semantico del timor. Se una radice unificante si può individuare questa è forse rappresentata dal carattere reverenziale del timore. Cfr. R. Quinto, “Timor reverentialis nella lingua della scolastica“, «Archivum Latinitatis Medii Aevi» 48-49 (1988-1989), 103-143 (http://hdl.handle.net/2042/3415), in particolare la p. 105.
[2] Si daranno solo alcuni esempi, senza la pretesa di voler offrire una trattazione esauriente. Lo scopo è di delineare uno sfondo generale più che esaminare i singoli autori. Tommaso, che qui non tratteremo, affronta il tema nel Commento alle Sentenze (III, d. 34, a. 2) e nella Somma Teologica (II-II, 19), prefigurando quella che sarà poi la celebre distizione tra timore serviliter servilis e simpliciter servilis.
[3] Pietro Lombardo, Sent. III, dist. 34 (PL 192, 824-825).
[4] Agostino, Ep. 93, 5, 16 (tr. it. di L. Carozzi, Roma, Città Nuova, 1969): «non deve considerarsi il fatto che uno venga costretto, ma se ciò a cui viene costretto sia bene o male. Non dico che uno possa essere buono per forza! Voglio dire che uno, per paura di un castigo che non è disposto a subire, o abbandona l’animosità che lo tiene lontano dalla verità conosciuta, o è costretto a conoscere la verità ignorata: la paura cioè lo potrebbe spingere a ripudiare la falsità per la quale lottava, o a ricercare la verità che ignorava, e infine a sostenere volentieri come vero ciò che prima non voleva. Parrebbe superfluo ripetere queste cose con tante parole, se non le vedessimo dimostrate da tanti esempi. Si tratta non già di singoli individui, ma di molte città che ora vediamo diventate cattoliche, che aborriscono cordialmente lo scisma istigato dal demonio e amano ardentemente l’unità».
[5] Humberti de Romanis De dono timoris, ed. C. Boyer, Turnhout, Brepols, 2008, p. 29 (CCCM 218).
[6] Benedetto da Mantova, Il Beneficio di Cristo, a c. di S. Caponetto, Firenze, Sansoni, 1972. Per una prima informazione sull’autore (e sulle influenze valdesiane che traspaiono dall’opera) si può consultare S. Caponetto, “Benedetto da Mantova”, in Dizionario biografico degli italiani 8 (1966), 437-441. Cfr. anche C. Ginzburg e A. Prosperi, Giochi di pazienza. Un seminario sul «Beneficio di Cristo», Torino, Einaudi, 1975.
[7] S. Caponetto, “Nota critica”, in Benedetto da Mantova, op. cit., pp. 469-470. Sull’attività inquisitoriale di Giovanni Della Casa si veda la sintesi di C. Mutini nel Dizionario biografico degli italiani 36 (1988), 699-719.
[8] Benedetto da Mantova, op. cit., 72v.
[9] Ibid. VI, 63r-64r.
[10] Phil. 4, 4. Cfr anche 1Petr. 1, 6.
[11] Benedetto da Mantova, op. cit. VI, 64r.
[12] Ibid., 64v.
[13] Melantone (Loci theologici, in Corpus reformatorum XXI, p. 886) si mostra sprezzante verso le «spinosae disputationes de amore iustitiae et timore poenae» e afferma che il discrimen è semplice e chiaro: il timore servile è senza fede (pavor sine fide) e in quanto tale cattivo, nel filiale interviene la fede che salva. La netta dicotomia non ammette stadi intermedi. Per il resto «Permittamus hoc genus disceptationis otiosis ingeniis» (p. 154).
[14] Ambrogio Catarino Politi, Compendio d’errori e inganni luterani, Roma, 1544, 49v (pubblicato da S. Caponetto nella citata edizione del Beneficio).
[15] Ibid., 51r.
[16] Ibid., 52r.
[17] Ibid., 52v.
[18] Ibid. Cfr. Agostino, In ep. Jo. IX, 4 (PL 35, 2047-48).
[19] Ibid., 53r.
[20] Concilio di Trento (1547), Decreto sulla giustificazione, c. 6. Il testo in H. Denzinger – P. Hünermann, Enchiridion symbolorum (d’ora in poi DH), Bologna, EDB, 2001, nn. 1526 e 1558.
[21] Cfr. nel 1690 il decreto del S. Uffizio sugli errori dei giansenisti (DH n. 2314-15) e la Cost. Unigenitus Dei Filius del 1713 (DH nn. 2460-67). Da notare che la paura della Geenna è buona e soprannaturale anche in assenza di amore verso Dio (come risulta da DH 2315).
[22] Cost. Auctorem fidei del 1794 (DH n. 2625).
[23] Cfr. A. Harnack, History of dogma VI.2 (transl. by W. Gilchrist, London, 1899, pp. 248-50).
[24] Lutero, De captivitate babylonica ecclesiae, Wittemberg, 1520 (l’edizione originale è consultabile sul sito della Biblioteca di stato bavarese: http://www.bsb-muenchen.de/): «Altri, peggiori e più inverecondi, inventarono una non so qual attrizione, che, per la virtù delle chiavi (di cui ignorano la vera forza), diventerebbe contrizione: e la donano agli empi e agli increduli, sicché in questo modo la contrizione è completamente vanificata» (tr. it. di I. Pin, Pordenone, Studio Tesi, 1984, p. 130).
[25] DH n. 1678.
[26] J. Auer, I sacramenti della chiesa, Assisi, Cittadella, 1989, p. 221 (si tratta del settimo volume della Piccola dogmatica cattolica di J. Auer e J. Ratzinger).
[
27] A. Beugnet, “Attrition”, in DThC 1 (1901), 2245.
[28] A. Harnack, op. cit., p. 225.

Keywords: Fear of God, Attrition, Contrition.

 

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